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About Processo tributario

Conciliate, “ove possibile…”

Riflessioni asistematiche sulla nuova potestà conciliativa della Corte di Giustizia Tributaria.

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L’art.48 bis .1 del d. lgs. 546, introdotto dalla riforma di agosto, è una norma sicuramente innovativa per il giudizio tributario.

Essa attribuisce alla Corte di Giustizia Tributaria la potestà autonoma di formulare una proposta conciliativa della controversia. La norma invita la Corte ad attivarsi, mediante la formulazione di una proposta anche fuori udienza, a che le parti trovino la quadra in forma concordata. Evidentemente il Legislatore confida nella sua efficacia, ed infatti la norma è entrata in vigore già da settembre e riguarda tutti i giudizi, sia quelli in tema di impugnativa di atti impositivi ma anche quelli di rimborso. Il processo verbale che perfeziona l’accordo costituisce infatti titolo per la riscossione delle somme dovute all’ente impositore ma anche per il pagamento di somme dovute al contribuente.

La potestà conciliativa è limitata alle controversie soggette a reclamo; quei giudizi di valore limitato (ma non troppo…), per i quali il ricorrente soggiace al riesame obbligatorio da parte dell’Ufficio. Se a ciò vogliamo associare anche l’eventuale svolgimento della fase di contraddittorio preventivo, ove esperibile, e’ evidente, anche alla luce della introduzione nell’art. 17 bis della responsabilità del funzionario riottoso, che il Legislatore, riguardo questi giudizi nei quali il contatto tra il contribuente e l’Ufficio non ha sortito esiti di comunicabilità in più di una occasione, non abbia gran cura a che la Corte eserciti il proprio compito essenziale, ossia quello di emettere sentenza.

Tale scelta di politica giudiziaria sembra condizionata dalla volontà di accelerare la definizione delle controversie più numerose e meno rilevati sotto il profilo del valore in contestazione, oltre che da esigenze di pronto recupero. La formazione del titolo accelera di certo la realizzabilità del prelievo, seppur in modalità compositiva e quindi esente da dictum.

Tale sensazione si rafforza osservando come la norma inviti la Corte, nell’esercizio del suo nuovo compito proattivo, ad aver “riguardo all’oggetto del giudizio e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione”. Mutuando lo schema del 185 bis cpc, quando il giudizio è di agevole definizione, la Corte è sollecitata a non giudicare (il che mi pare proprio un ossimoro). Questa assonanza normativa, tuttavia, viene ad introdursi in un giudizio, quello tributario, che non tratta diritti disponibili. La limitazione che circoscrive gli atti compositivi nel giudizio civile ai diritti disponibili non trova correlazione nel giudizio tributario, la cui materia del contendere è la pretesa tributaria dello Stato, come è noto, coperta dal principio di indisponibilità. Principio che, anche sotto questo profilo, come ormai desumibile da plurimi indizi convergenti, pare vacillare.

A questa lettura, per così dire ontologica, della nuova disposizione, si aggiunge una ulteriore difficoltà, nascente dal parallelismo tra il giudizio civile e quello tributario. Laddove il primo può infatti sfociare nella richiesta compositiva dopo la prima sequenza di memorie, e quindi lo svolgimento articolato di più atti di reciproca esplicitazione delle ragioni di fatto e di quelle giuridiche in conflitto, il giudizio tributario giunge a trattazione senza che il contraddittorio tra le parti si sia ancora esplicitato, trovandosi invece di fronte, visto lo schema tipico degli atti, da un lato l’atto impositivo e dall’altro il ricorso, entrambi assolutamente vincolati ad esprimere compiutamente da un lato la pretesa impositiva puntuale e dall’altro tutti (nessuno escluso) i motivi di doglianza esperibili, pena la reciproca soccombenza. Di certo atti tipici non suscettibili di sottoporre al vaglio della Corte opzioni alternative di negoziazione, che sarebbero immediatamente sanzionate dalla controparte come assunzione di consapevole fragilità del contrapposto impianto probatorio a sostegno.

Ed allora si pone il problema di come verrà interpretata questa potestà. Ovvero come la Corte intenderà esercitare nel concreto questa sollecitazione a conciliare.

Dall’ascolto dei primissimi contributi interpretativi mi è parso di cogliere due diverse letture della facoltà conciliativa.

Da un lato la conciliazione prognostica.

In questo caso la Corte, prefigurato l’esito del giudizio, avrebbe agio di esprimere una proposta in linea con la emananda sentenza, seppur non compiutamente aderente ad essa, al fine di agevolarne l’adozione. La proposta quindi dovrebbe seguire una succinta delibazione degli atti di causa e, appunto, prefigurandone gli esiti, esprimere un contenuto che se ne discosti giusto il minimo necessario per convincere le parti ad accettarne spontaneamente gli esiti.

Ovvero la proposta potrebbe orientarsi a trovare la conciliazione nel dialogo tra le parti. Potremmo quivi parlare di conciliazione transattiva ovvero intercessione conciliativa, nel senso che più che la forza del giudicato emanabile (che in realtà nella conciliazione non si manifesta) la Corte dovrebbe esercitare poteri di suasion tra le parti ricercando un minimo comune denominatore sufficiente anche allontanandosi (non troppo, temo…) dalla prefigurazione del possibile esito del giudizio.

Nell’un caso o nell’altro, la proposta, che norma vuole formulata in udienza ovvero anche fuori udienza, e per questo comunicata alle parti, dovrebbe contenere non già una compiuta motivazione (la quale potrebbe essere contestata per il suo contenuto anticipatorio) ma almeno un succinto riepilogo giustificativo, che ne agevoli la comprensione e, casomai, il perfezionamento. Il tutto, ovviamente, facendo sempre riferimento all’oggetto del giudizio ed alle questioni di pronta soluzione.

“Ove possibile…” come auspica la norma.

L’art 48 bis punto 1, tuttavia, si presta a derive orientate, e per questo temo che potrebbe affermarsi una sorta di conciliazione surrogatoria.

La conciliazione potrebbe rivelarsi lo strumento più adatto per fornire una stampella ad un provvedimento impositivo scarsamente motivato, inducendo comunque una composizione al rialzo, ovvero, specularmente, il depotenziamento di una difesa solida e la prona accettazione di una vittoria non piena, pur in presenza di valide ragioni sostenibili. Insomma, un rinnovato potere induttivo, che, associato all’utilizzo delle spese di lite, orienti il contribuente a desistere dalla propria naturale propensione alla ricerca di una interpretazione favorevole della norma tributaria.

In questo, l’istituto potrebbe rivelarsi come una vera e propria epifania. L’occasione tramite la quale la Corte potrebbe svelare la sua più intima natura, quella pars non teleologicamente neutrale, indicativa della consapevolezza messianica del proprio ruolo e del compito svolto.

Una incredibile occasione di pubblico svelamento della “verità”, già nota e quotidianamente sperimentata dalle difese.

Perché il potere di indurre la composizione è assai più incisivo della peggior sentenza apoditticamente motivata.

Ed allora: conciliate, “ove possibile…”.

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