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Conciliate, “ove possibile…”

Riflessioni asistematiche sulla nuova potestà conciliativa della Corte di Giustizia Tributaria.

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L’art.48 bis .1 del d. lgs. 546, introdotto dalla riforma di agosto, è una norma sicuramente innovativa per il giudizio tributario.

Essa attribuisce alla Corte di Giustizia Tributaria la potestà autonoma di formulare una proposta conciliativa della controversia. La norma invita la Corte ad attivarsi, mediante la formulazione di una proposta anche fuori udienza, a che le parti trovino la quadra in forma concordata. Evidentemente il Legislatore confida nella sua efficacia, ed infatti la norma è entrata in vigore già da settembre e riguarda tutti i giudizi, sia quelli in tema di impugnativa di atti impositivi ma anche quelli di rimborso. Il processo verbale che perfeziona l’accordo costituisce infatti titolo per la riscossione delle somme dovute all’ente impositore ma anche per il pagamento di somme dovute al contribuente.

La potestà conciliativa è limitata alle controversie soggette a reclamo; quei giudizi di valore limitato (ma non troppo…), per i quali il ricorrente soggiace al riesame obbligatorio da parte dell’Ufficio. Se a ciò vogliamo associare anche l’eventuale svolgimento della fase di contraddittorio preventivo, ove esperibile, e’ evidente, anche alla luce della introduzione nell’art. 17 bis della responsabilità del funzionario riottoso, che il Legislatore, riguardo questi giudizi nei quali il contatto tra il contribuente e l’Ufficio non ha sortito esiti di comunicabilità in più di una occasione, non abbia gran cura a che la Corte eserciti il proprio compito essenziale, ossia quello di emettere sentenza.

Tale scelta di politica giudiziaria sembra condizionata dalla volontà di accelerare la definizione delle controversie più numerose e meno rilevati sotto il profilo del valore in contestazione, oltre che da esigenze di pronto recupero. La formazione del titolo accelera di certo la realizzabilità del prelievo, seppur in modalità compositiva e quindi esente da dictum.

Tale sensazione si rafforza osservando come la norma inviti la Corte, nell’esercizio del suo nuovo compito proattivo, ad aver “riguardo all’oggetto del giudizio e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione”. Mutuando lo schema del 185 bis cpc, quando il giudizio è di agevole definizione, la Corte è sollecitata a non giudicare (il che mi pare proprio un ossimoro). Questa assonanza normativa, tuttavia, viene ad introdursi in un giudizio, quello tributario, che non tratta diritti disponibili. La limitazione che circoscrive gli atti compositivi nel giudizio civile ai diritti disponibili non trova correlazione nel giudizio tributario, la cui materia del contendere è la pretesa tributaria dello Stato, come è noto, coperta dal principio di indisponibilità. Principio che, anche sotto questo profilo, come ormai desumibile da plurimi indizi convergenti, pare vacillare.

A questa lettura, per così dire ontologica, della nuova disposizione, si aggiunge una ulteriore difficoltà, nascente dal parallelismo tra il giudizio civile e quello tributario. Laddove il primo può infatti sfociare nella richiesta compositiva dopo la prima sequenza di memorie, e quindi lo svolgimento articolato di più atti di reciproca esplicitazione delle ragioni di fatto e di quelle giuridiche in conflitto, il giudizio tributario giunge a trattazione senza che il contraddittorio tra le parti si sia ancora esplicitato, trovandosi invece di fronte, visto lo schema tipico degli atti, da un lato l’atto impositivo e dall’altro il ricorso, entrambi assolutamente vincolati ad esprimere compiutamente da un lato la pretesa impositiva puntuale e dall’altro tutti (nessuno escluso) i motivi di doglianza esperibili, pena la reciproca soccombenza. Di certo atti tipici non suscettibili di sottoporre al vaglio della Corte opzioni alternative di negoziazione, che sarebbero immediatamente sanzionate dalla controparte come assunzione di consapevole fragilità del contrapposto impianto probatorio a sostegno.

Ed allora si pone il problema di come verrà interpretata questa potestà. Ovvero come la Corte intenderà esercitare nel concreto questa sollecitazione a conciliare.

Dall’ascolto dei primissimi contributi interpretativi mi è parso di cogliere due diverse letture della facoltà conciliativa.

Da un lato la conciliazione prognostica.

In questo caso la Corte, prefigurato l’esito del giudizio, avrebbe agio di esprimere una proposta in linea con la emananda sentenza, seppur non compiutamente aderente ad essa, al fine di agevolarne l’adozione. La proposta quindi dovrebbe seguire una succinta delibazione degli atti di causa e, appunto, prefigurandone gli esiti, esprimere un contenuto che se ne discosti giusto il minimo necessario per convincere le parti ad accettarne spontaneamente gli esiti.

Ovvero la proposta potrebbe orientarsi a trovare la conciliazione nel dialogo tra le parti. Potremmo quivi parlare di conciliazione transattiva ovvero intercessione conciliativa, nel senso che più che la forza del giudicato emanabile (che in realtà nella conciliazione non si manifesta) la Corte dovrebbe esercitare poteri di suasion tra le parti ricercando un minimo comune denominatore sufficiente anche allontanandosi (non troppo, temo…) dalla prefigurazione del possibile esito del giudizio.

Nell’un caso o nell’altro, la proposta, che norma vuole formulata in udienza ovvero anche fuori udienza, e per questo comunicata alle parti, dovrebbe contenere non già una compiuta motivazione (la quale potrebbe essere contestata per il suo contenuto anticipatorio) ma almeno un succinto riepilogo giustificativo, che ne agevoli la comprensione e, casomai, il perfezionamento. Il tutto, ovviamente, facendo sempre riferimento all’oggetto del giudizio ed alle questioni di pronta soluzione.

“Ove possibile…” come auspica la norma.

L’art 48 bis punto 1, tuttavia, si presta a derive orientate, e per questo temo che potrebbe affermarsi una sorta di conciliazione surrogatoria.

La conciliazione potrebbe rivelarsi lo strumento più adatto per fornire una stampella ad un provvedimento impositivo scarsamente motivato, inducendo comunque una composizione al rialzo, ovvero, specularmente, il depotenziamento di una difesa solida e la prona accettazione di una vittoria non piena, pur in presenza di valide ragioni sostenibili. Insomma, un rinnovato potere induttivo, che, associato all’utilizzo delle spese di lite, orienti il contribuente a desistere dalla propria naturale propensione alla ricerca di una interpretazione favorevole della norma tributaria.

In questo, l’istituto potrebbe rivelarsi come una vera e propria epifania. L’occasione tramite la quale la Corte potrebbe svelare la sua più intima natura, quella pars non teleologicamente neutrale, indicativa della consapevolezza messianica del proprio ruolo e del compito svolto.

Una incredibile occasione di pubblico svelamento della “verità”, già nota e quotidianamente sperimentata dalle difese.

Perché il potere di indurre la composizione è assai più incisivo della peggior sentenza apoditticamente motivata.

Ed allora: conciliate, “ove possibile…”.

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La ricognizione del debito tributario nella esecuzione collettiva

Come è noto, nel quadro della gerarchia delle fonti, la legge speciale deroga la legge generale, foss’anche quest’ultima sia stata emanata successivamente alla prima.

La Cassazione, in una vecchia sentenza del 2006, per definire il rapporto tra norma generale e norma speciale utilizza una raffigurazione plastica: “È necessario, cioè, che le due disposizioni appaiano come due cerchi concentrici, di diametro diverso, in modo tale che quello più ampio contenga in sé quello minore ed abbia un settore residuo destinato ad accogliere i requisiti aggiuntivi della specialità”.

Il principio di specialità tuttavia non appare risolutivo laddove il concorso occorra tra norme speciali, ossia tra discipline antinomiche, ma pari ordinate. Diritto tributario e diritto concorsuale sono entrambe normative “speciali”. Il diritto tributario, poi, a differenza del diritto concorsuale, che ricade comunque nell’alveo della giurisdizione ordinaria, seppur speciale, gode anche di propria giurisdizione esclusiva.

In questo caso, potrebbe immaginarsi una rappresentazione figurativa per cerchi parzialmente sovrapposti, nei quali, la cointeressenza si materializzi solo in ambiti limitati. Entrambe le normative prevalgono nei propri ambiti di competenza esclusiva, ma sono correlativamente costrette a retrocedere, necessitando entrambe di ricondurre alla corretta ermeneutica degli istituti secondo la legge speciale che li disciplina, nelle molteplici occasioni di reciproco contatto.

L’approfondimento sugli effetti di questa correlazione gode di ampio studio ed approfondimento, oltre ad un ampio spettro di applicazione giurisprudenziale.

Utile per una visione d’insieme, una pubblicazione dell’Osservatorio Permanente della Giustizia Tributaria del 2017, e segnatamente del dott. De Matteis giudice della sezione fallimentare presso il Tribunale di Napoli e Giudice tributario, che offre un quadro ricostruttivo molto dettagliato. La problematica è quanto mai attuale in tema di transazione fiscale: nella stessa rivista il contributo di Angelo Cuva, che offre una visione ante litteram ed evolutiva del principio di indisponibilità della pretesa tributaria, oggi tanto attuale nella regolazione di questo istituto, tutt’ora ancora in divenire. Tutte queste ricostruzioni appuntano la loro attenzione agli effetti regolatori del diritto tributario successivamente al deposito in cancelleria della dichiarazione di fallimento.

Credo invece valga la pena approfondire un profilo inedito, che nasce dalla necessità di affrontare come professionisti una nuova occorrenza professionale, nascente dalla prassi operata per adesso presso solo alcuni dei Tribunali italiani (Catania, Bergamo, Piacenza, ma anche Milano e Napoli) di anticipare gli effetti dell’art.38 del nuovo codice della crisi d’impresa, a tenore del quale

“Il pubblico ministero presenta il ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale in ogni caso in cui ha notizia dell’esistenza di uno stato di insolvenza”,

orientando in modo fortemente estensivo il portato delle norme oggi vigenti, ossia l’art.7 della vigente LF che così recita:

“Iniziativa del pubblico ministero. Il pubblico ministero presenta la richiesta di cui al primo comma dell’articolo 6: 1) quando l’insolvenza risulta nel corso di un procedimento penale, ovvero dalla fuga, dalla irreperibilità o dalla latitanza dell’imprenditore, dalla chiusura dei locali dell’impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell’attivo da parte dell’imprenditore; 2) quando l’insolvenza risulta dalla segnalazione proveniente dal giudice che l’abbia rilevata nel corso di un procedimento civile”.

Non è rilevante al nostro discorso approfondire la legittimità di questa prassi interpretativa, tutta di derivazione giurisprudenziale, che qui volutamente si tralascia, anche perché le motivazioni dichiarate, tutte aventi giustificazione nella “salvaguardia di sistema”, di natura quindi teleologica, sono poco digeribili, per chi come noi difensori è solito analizzare la fattispecie concreta hic et nunc, nel suo concreto manifestarsi.

Più interessante invece approfondire le problematiche nascenti dall’osservazione dei casi, e sono la quasi totalità, in cui il PM agisce per la declaratoria dell’insolvenza attestata dalla sussistenza di un debito di imposta (e/o contributivo) esorbitante i limiti oggi in vigore per la fallibilità (dimensionali ex art.1 LF e quantitativi di scaduto ex art 5 L.F.).

In questo caso il PM agisce in supplenza del legittimo creditore Ente pubblico (Agenzia delle Entrate, Agente della Riscossione, INPS) dal quale, previa redazione di appositi protocolli d’intesa, acquisisce periodiche informative attestanti lo stato del carico debitorio numericamente più rilevante in capo a soggetti giuridici per i quali maturi il profilo soggettivo di fallibilità e, ove asseritamente sussistenti i vincoli di legge, avvii appunto l’azione presentando istanza di fallimento ed aprendo la istruttoria prefallimentare.

Ci si trova quindi a fronteggiare ambiti nuovi di difesa, nella quale l’imprenditore sottoponibile al fallimento, è impegnato a fornire la prova della sussistenza (o meno) del debito d’imposta, ovvero della sua procedibilità, innanzi ad un giudice che non è il giudice naturale precostituito per legge.

Il Giudice fallimentare infatti ha cognizione esclusiva nel proprio ambito di competenza; assume piena cognizione del debito quale indizio della avvenuta realizzazione dello stato di decozione. Esso tuttavia è privo di giurisdizione in punto di determinazione dell’an e del quantum del tributo.

Ecco spiegato il titolo di questa relazione, nella quale volutamente ho utilizzato il termine RICOGNIZIONE e non già il termine ACCERTAMENTO. Al Giudice concorsuale, essendo preclusa la cognizione tipica, è consentita la mera ricognizione del debito per imposte. Parlo di ricognizione nel senso lessicale di riconoscimento, secondo i canoni di disciplina disposti dalla legge tributaria.

Nell’ambito quindi della propria cognizione esclusiva, che nella fase prefallimentare è finalizzata alla individuazione dei presupposti di fallibilità, il Giudice concorsuale è vincolato ad effettuare una attenta ricognizione del debito tributario, che tenga cura ed osservanza della norma tributaria che ne regola il presupposto e la esecutività.

Tale necessità si impone con particolare urgenza laddove la pretesa creditoria per tributi, cui si vuol far discendere l’accertamento dello stato di insolvenza, non viene processata dal creditore ab intestato, ossia dall’Agente della Riscossione in rappresentanza dell’Ente Erariale che ha accertato la pretesa, ai sensi e per gli effetti dell’art 87 del DPR 602/73, bensì dall’Ufficio della Procura della Repubblica, nell’esercizio di una funzione di supplenza, cui però, con tutta evidenza, potrebbe non accedere il necessario tecnicismo in una normativa così mutevole ed, appunto, estremamente tecnica.

Proviamo quindi a fornire un minimo di casistica, avvisando che, trattandosi di ipotesi ancora limitate nell’alveo di una mera interpretazione non radicata su tutto il territorio nazione, esse appaiono solo esemplificative delle notevoli problematicità che, sono assolutamente certo, verranno a manifestarsi.

  1. Il debito tributario è portato da atti tipici, che seguono un procedimento amministrativo complesso, che deve essere compiuto, formalizzato ed opponibile al contribuente, che ha diritto ad esercitare l’opzione dell’impugnativa. Solo all’esito compiuto di questo percorso, il debito può considerarsi maturato e, ove impagato, eseguibile anche ai fini della maturazione dell’insolvenza.
  2. L’esecuzione collettiva non può essere l’occasione di un accertamento del debito d’imposta; questo perché al Giudice fallimentare (che è giudice ordinario) è preclusa l’attività di accertamento giudiziale del tributo, riservata, come è noto alla giurisdizione speciale delle Commissioni Tributarie.
  3. Tantomeno l’innesco della procedura concorsuale non può consentire l’accertamento di omissioni di imposta non precedute dall’attività accertativa resa amministrativamente dal soggetto giuridico ad essa deputata che è l’Agenzia delle Entrate. E ciò anche se tale omissione si sia manifestata agli esiti di indagini cui il PM abbi avuto accesso autonomo, laddove tali indagini non si siano ancora trasfuse nella emanazione di atti tipici del procedimento di accertamento, imposta per imposta.
  4. Non può determinare il fallimento di un soggetto giuridico in tutte le situazioni nelle quali il debito sia legittimamente sospeso in applicazione di una norma procedimentale amministrativa tributaria. Parlo di tutte quelle ipotesi nella quali la normativa tributaria stabilisce che un proprio atto di accertamento sia sospeso nella esecutività. Quindi sospensione amministrativa; sospensione per effetto di provvedimento di rateazione (della quale non sia stata effettuata la declaratoria di decadenza). Sotto questo profilo segnalo una ipotesi che mi è personalmente occorsa laddove il Tribunale di Catania ha disposto la reiezione dell’istanza di fallimento per “non attualità” del debito (di ingentissima entità) stante la pendenza della sospensione Covid19 (T/Catania decreto 3.12.2020).
  5. Quanto ai ruoli, diverse le problematiche immaginabili.
    • Le certificazioni del carico dei debiti comunicate da Agenzia, Inps e Agente della riscossione spesso si sovrappongono: avvisi di accertamento impoesattivi e avvisi di addebito INPS spesso sono esposti sia dall’Ente emittente che dall’Agente della riscossione e quindi necessita che il Giudice dell’istruttoria fallimentare abbia la capacità di riconoscerne la duplicazione.
    • Laddove poi il debito tributario fosse portato da ruoli assai risalenti nel tempo, potrebbe legittimamente obiettarsi la violazione dell’art 50 dpr 602/73 che come normativamente previsto, inibisce all’Agente della Riscossione l’avvio della esecuzione individuale a mezzo ruolo laddove la cartella di pagamento, notificata da oltre un anno, non venga preceduta dalla notifica di una intimazione di pagamento nel termine di cinque giorni. Cass. SS.UU 34447/2019 (in conformità al disposto della Corte Cost. n.114/2018 che ha sancito la illegittimità dell’art 57 comma 1 lett a) DPR 602/73 ed ha individuato nella notifica della cartella il discrimine tra il riparto di giurisdizione tra i vizi ante e post notifica del titolo) ha sancito che l’eccezione di prescrizione maturata successivamente alla notifica della cartella è di competenza del Tribunale fallimentare in sede di opposizione allo stato passivo e di insinuazione tardiva. Problematica tuttavia mi pare la gestione di tale cognizione in capo al Giudice dell’istruttoria fallimentare, stante le particolari esigenze di sommarietà che caratterizzano tale fase prodromica alla declaratoria dell’insolvenza.
    • Uguale necessità si offre rispetto alla procedura di cui alla Legge 228/2012, rispetto alla quale le pronunzie di merito sono pochissime. Ma anche in questo caso si pone il problema della corretta ricognizione del debito, laddove l’Ente creditore ometta la prescritta comunicazione nei termini di legge, cui segue l’annullamento di diritto delle partite ed il discarico automatico delle medesime e dei relativi ruoli.
  6. Diversamente segnalo Cass.28192/2020 sez.I^ per un utilizzo assolutamente non condivisibile della cd teoria dichiarativa dell’accertamento tributario. Assume la Corte (sezione non tributaria) che l’avviso di accertamento avrebbe funzione meramente ricognitiva del debito tributario che si assume preesistere appunto all’accertamento, a prescindere dalla trasmissione del carico fiscale al concessionario. La sentenza non consente una chiara ricognizione della tipologia di atto impositivo, limitandosi a parlare di avviso di accertamento, “conosciuto solo a seguito di interrogazione disposta dal Tribunale di Milano” e “non ancora passato al concessionario per la riscossione”.
  7. Ovviamente non può assumersi come debito la semplice notifica del cd avviso bonario. La vicenda è affrontata nell’ipotesi di ammissione al passivo del credito portato da avviso bonario non ancora tramutatosi in ruolo successivamente alla dichiarazione di fallimento, e risolta positivamente da Cass SS.UU 4126/2012, e precedentemente Cass. SS. UU.5165/2009. Orbene, a parte che rispetto a questo orientamento giurisprudenziale non v’è già unanimità di vedute (vedesi l’opinione contraria di Del Federico (in Rass. Tributaria n. 1/2015 CEDAM), concreto è il rischio di una deriva interpretativa che estenda anche alla fase prefallimentare l’ingresso di una pretesa non formalizzata in un titolo esecutivo tipizzato dalla norma tributaria, come nel caso precedentemente riassunto.

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E’ indiscutibile che, come è già desumibile da quest’ultimo arresto giurisprudenziale, come l’avvio a regime del codice della crisi di impresa imporrà una accelerazione di prassi oggi isolate, cui necessiterà approcciarsi con l’ausilio di nuova consapevolezza da parte di tutti gli attori in gioco.

Quanto al Giudice fallimentare, si imporrà un approccio consapevole del tecnicismo tributario, cui sarà necessario avvicinarsi con la consapevolezza che gli istituti del diritto tributario sono tipizzati e che al fine della corretta individuazione del carico scaduto sarà necessario e responsabile che le norme fiscali vengano testualmente interpretate.

Quanto al difensore, di certo all’avvocato specializzato in diritto tributario si offrono nuovi ambiti di valorizzazione della propria specificità professionale, sia nei riguardi dell’impresa, mediante un accorta attività anticipatoria nell’avvio delle tutele tipiche, al fine di preparare l’imprenditore ad affrontare con consapevolezza l’impatto con l’istruttoria fallimentare, ma anche nei riguardi del Giudice, cui potrà offrire il sostegno della propria specialità professionale al fine di approcciarsi con consapevolezza nei riguardi di una materia e di istituti che non gli sono consueti (a meno che non pratichi già la Commissione Tributaria).

Quanto all’imprenditore, affinché comprenda che non è più possibile approcciarsi ai propri obblighi tributari con leggerezza e che l’omissione del versamento delle imposte non è più un canale di autofinanziamento praticabile, oltre ad essere ovviamente un dovere nei riguardi della collettività.

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Il valore fondamentale della giurisdizione specializzata di merito nell’attuazione della legislazione statutaria.

Nell’immaginare una riflessione sulla storia (parlamentare e, ex post, applicativa-giurisprudenziale) dello Statuto dei diritti del contribuente di cui quest’anno celebriamo il ventennale, mi è venuto spontaneo porre a raffronto lo Statuto dei diritti dei contribuenti con lo Statuto dei diritti dei lavoratori, introdotto nel con la legge 300 del 1970 dopo un lungo lavoro sotto la guida del ministri Brodolini (socialista, prematuramente scomparso) e Donat Cattin (democristiano) ma soprattutto sotto la guida di Gino Giugni incaricato di dirigere la commissione per l’elaborazione del testo dello statuto.

Questo palinsesto normativo ha fornito la cornice definitoria ad un rapporto conflittuale tra una parte debole (la parte della manodopera lavorativa) nei riguardi della parte forte (la parte datoriale) in un tempo ormai dimenticato di grossi conflitti sociali, affermando e disciplinando il diritto di organizzazione sindacale e la contrattazione collettiva.

Questa norma, che ancora oggi a distanza di cinquant’anni viene riconosciuta come fondamentale nel quadro normativo nazionale e che, come accade per il nostro statuto dei diritti dei contribuenti, esprime, in una norma ordinaria, principi e regole di stampo costituzionale (Titolo I “Della libertà e della dignità del lavoratore” e Titolo II “Della libertà sindacale”), ha avuto il privilegio di essere seguita, dopo soli tre anni dalla sua entrata in vigore, della nuova legge sul processo del lavoro.

La legge n. 533 del 1973 ha istituito il ruolo del giudice di merito specializzato nella materia e ha introdotto nel processo una serie di principi e di regole processuali che hanno consentito al giudice di operare in modo rapido ed efficace. E i giudici, grazie al nuovo processo del lavoro, si sono sentiti investiti di un ruolo di supplenza e hanno saputo svolgere tale impegnativo ruolo con entusiasmo e carica creativa. Paolo Grossi afferma, tra l’altro, che in coincidenza con l’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori e del nuovo processo del lavoro “una generazione nuova di giudici si sentì investita di una missione garantistica”.

Il compito del nuovo giudice era (ed è attualmente, atteso che la norma è rimasta, in parte qua, immutata) quello di trovare una linea di confine fra comportamenti antisindacali, e come tali illegittimi, e comportamenti datoriali dialetticamente contrapposti al sindacato ma pienamente legittimi in quanto meramente antagonistici e quindi ricompresi nella corretta dialettica fra parti contrapposte. Una linea di confine che può essere trovata soltanto attraverso la corretta applicazione dei princìpi dell’ordinamento, ed in particolare dei principi costituzionali.

In questo, e con tutte le complessità e le degenerazioni che gli esperti lavoristi possono far rilevare dopo il trascorso di mezzo secolo, è innegabile che il giudice del lavoro abbia sussunto nel esercizio della propria giurisdizione il principio costituzionale della terzietà, oltre che della professionalità e della competenza specialistica.

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Cosa è accaduto per effetto dell’introduzione dello Statuto dei diritti del contribuente?

E’ innegabile che la resa delle novità introdotte dallo Statuto (dal nostro Statuto) è stata di diverso rilievo ed incidenza, a seconda che si abbia agio di osservare i diversi attori del rapporto in cui la legge si è inserita ed ha operato, ossia “l’amministrazione, la giurisprudenza, il legislatore, il Garante, i contribuenti”.

L’Amministrazione Finanziaria.

E’ innegabile che lo Statuto abbia accompagnato, tra la fine degli anni 90 ed i primi anni 2000, una rilevante opera di modernizzazione della Amministrazione finanziaria, che va riconosciuta ed apprezzata. In questo periodo nasce il fisco telematico, la dichiarazione unica, le compensazioni, le rateazioni, si realizza un sistema di comunicazione con i contribuenti che rende più trasparente la liquidazione delle dichiarazioni, si potenzia l’attività di informazione con l’utilizzo avanzato di Internet e delle nuove tecnologie; si introduce con circolare l’interpello, si vara l’autotutela, si generalizza il ravvedimento, si porta a regime l’accertamento con adesione, si regola con Direttiva del Ministro lo svolgimento delle verifiche, si riforma e si umanizza la disciplina delle sanzioni, si creano le Agenzie.  

Tutte realtà che oggi appaiono scontate ma che non lo erano affatto, prima della loro introduzione. Sotto questo specifico profilo, è necessario e doveroso riconoscere che il ruolo del contribuente si è instradato in un percorso di maturazione da suddito a cittadino.

Certo, dovremmo in realtà attualizzare tale giudizio e chiederci se la PA dei tempi d’oggi è rimasta all’altezza di questa modernizzazione; così come andrebbe indagato se questa modernizzazione non sia stata più funzionale alle necessità dell’Ufficio che indotta dal rispetto dei principi statutari.

La Giurisdizione tributaria.

Eguale e condivisibile il plauso nei riguardi della Suprema Corte, che tutti anche oggi hanno riconosciuto aver avuto il merito di enucleare ed attribuire valore e rango sovraordinato all’insieme dei principi in esso statuiti. Certo, la fragilità dell’impianto normativo è evidente: il mancato riconoscimento formale del rango costituzionale derivante dalla mancata inclusione nel sistema delle fonti fa della legge 212 una norma tanto evocata quanto derogata e violata nella propria essenza garantista.

Va peraltro rammentata la coincidenza temporale con la nascita della sezione tributaria della Suprema Corte, la cui attività è iniziata il 1° novembre 1999.

E’ altrettanto vero, e con ciò ritorno al parallelismo di partenza, che la resa del Giudice dei tributi, nell’ottica della attuazione statutaria, si presenta non paragonabile a quanto fatto dai buoni vecchi Pretori del Lavoro.

Questo assunto è il frutto di una comune percezione (credo oggi anche condivisa con l’Agenzia) di inadeguatezza (dell’istituto, non già dei soggetti che oggi sono chiamati con dedizione a rivestirne il ruolo). Lo dicono i numeri, oltre che la comune esperienza personale delle parti in causa, e ne soffre soprattutto la Suprema Corte, se è vero come è vero che la pendenza dei giudizi nelle due sezioni specializzate (la Sezione lavoro e la Sezione tributaria) è numericamente sbilanciata a danno della sezione tributaria (dati del 2017, sul 100% dei giudizi, il 37, 05% è stato iscritto in sezione tributaria, addirittura l’17,6% in sezione lavoro, comprensivi del previdenziale).

La Corte è stata chiamata ad uno sforzo di supplenza straordinario che si riflette sul suo quotidiano funzionamento e rischia di comprometterne la funzionalità, come pubblicamente richiamato sin dalla presidenza Carbone.

Ma al di là della dimensione numerica della pendenza, quello che credo vada stigmatizzato, è la circostanza che la onorarietà dell’impiego, e quindi la temporaneità dell’impegno reso dai giudici prestati all’Ufficio delle Commissioni Tributarie, non è più compatibile con l’approccio consapevole e responsabile nella definizione di controversie assai tecniche.

Perché, come ci insegna lo Statuto dei diritti del contribuente, la composizione del conflitto tributario involge sempre il riconoscimento della dignità, prima ancora che della soggettività giuridica del cittadino contribuente nei confronti dello strapotere dello Stato impositore. Alla luce di questo faro, non si giustifica più la sommarizzazione dei giudicati, la svalutazione della motivazione dell’atto, la continua inversione dell’onere della prova.

Il Legislatore.

Ciò anche perché veramente a poco sembra valere l’autoqualificazione, con la quale esordisce l’art. 1, comma 1, (“Le disposizioni della presente legge, in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono princìpi generali dell’ordinamento tributario…”) indubbiamente espressione della volontà di orientare in senso garantistico tutta la prospettiva costituzionale del diritto tributario, quando tali intenzioni sono sistematicamente tradite dallo stesso legislatore che, legge su legge, deroga esplicitamente ai contenuti dello Statuto.  

E qualcuno, a Berlino, prima o poi dovrà riconoscere che il sistematico reiterarsi di interpretazioni autentiche (tutte a beneficio della parte pubblica) è vero e proprio abuso del diritto.

Si è parlato di codificazione. In una intervista al Sole il prof. Gianni Marongiu, padre nobile dello Statuto ha affermato: “Eliminare lo Statuto vorrebbe dire scrivere un Codice tributario, ma è uno sforzo sproporzionato alla forza dell’attuale Parlamento”. Tutti noi ci auguriamo di essere smentiti.

Il Garante.

Anche la figura del Garante sconta un gap di adeguatezza funzionale. Così, difettano all’autorevolezza dell’organo i poteri tipici delle authorities: il potere di assumere decisioni vincolanti, e di comminare sanzioni in caso di inosservanza delle stesse; il potere di disporre ispezioni e controlli penetranti sull’operato delle Amministrazioni finanziarie soggette a verifica; il potere di emettere pareri, assente se non nella limitata prospettiva di attribuire funzione consultiva alle Relazioni che il Garante presenta periodicamente al Ministero delle Finanze. Chi ricorda quei tempi sa che il Garante nacque come ripiego tra chi avrebbe voluto introdurre una Autorità Autonoma e il ministero che si oppose.

L’istituto forse potrebbe manifestare una rinnovata rilevanza ove venisse dato corso all’esperienza tutta siciliana del Tavolo della Compliance. Certo, il ventennio trascorso e la rinnovata fiducia nell’istituto delle autorità amministrative indipendenti, per l’elevata funzione di controllo indipendente che hanno assicurato, lascia pensare che, ove rispettata la adeguata dotazione di strumenti, questa opzione oggi potrebbe trovare quell’ascolto a suo tempo denegato.

Contribuenti e professionisti.

In conclusione, una parola va data ai contribuenti ed anche ai professionisti che li rappresentano. Ovviamente parlo dei contribuenti consapevoli dei propri obblighi di contribuzione nei riguardi dello Stato, non degli evasori.

Ebbene, non è dato sapere quanto la percezione dello statuto sia entrata nella coscienza collettiva. Personalmente dubito che si tratti di una percentuale rilevante. Molti hanno tratto benefici dal miglioramento del rapporto tributario in via del tutto inconsapevole.

Lo Statuto è basato, lo abbiamo visto, su alcune parole d’ordine fondamentali, e una tra queste è la trasparenza. La prima forma di trasparenza riguarda gli effetti economici delle leggi. Sapere quanto incide sulle loro tasche una legge come quella di stabilità è un preciso diritto dei cittadini. Una seconda forma di trasparenza, ancora più rilevante, riguarda l’ammontare complessivo della tassazione gravante sui cittadini. E’ forse abbastanza agevole verificare qual è la pressione fiscale erariale, ma è assai più difficoltoso determinare qual è la pressione, anche molto diversa nel territorio, che grava in modo complessivo sul cittadino.

E’ passata sotto silenzio la pubblicazione dell’International Tax Competitiveness Index realizzato dal Centro studi Epicenter che pone il sistema fiscale italiano all’ultimo posto tra i paesi aderenti all’OCSE per elevatezza delle aliquote marginali, per la compresenza asfissiante di imposte sul patrimonio, sulle transazioni finanziarie e sugli immobili; e per la farraginosità del sistema degli adempimenti correlati all’esecuzione dell’obbligazione tributaria.

Forse è giunto il momento, magari partendo dai dati acquisisti in seno alle dichiarazioni precompilate ovvero all’ISEE, di creare un indice che misuri e dia un valore, non solo statistico, alla pressione fiscale cui il singolo soggetto è sottoposto, affinché, ove questo indice esuberi limiti normativamente prefigurati di elevatezza e sopportabilità, il cittadino possa ottenerne la riduzione per via giudiziale.

Quanto ai professionisti, e mi riferisco agli avvocati, mi sia permesso di ricordare che quest’anno oltre ad essere il ventennale dello Statuto, è anche il ventennale di UNCAT, che prese vita proprio nel dicembre del 2000, nella splendida cornice del Tribunale di Napoli, alla presenza e sotto la cura dell’accademia.

Il contributo fattivo all’odierno evento dell’avvocatura specialistica organizzata ci rassicura sulla convinzione che questo ventennio non sia trascorso invano.

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Jazz law, ovvero l’abisso della giurisprudenza tributaria creativa.

Cosa è l’improvvisazione?

Secondo Derek Bailey, compianto chitarrista inglese, autore di un testo fondamentale di cultura jazzistica intitolato “Improvvisazione. Sua natura e pratica in musica”, essa è “la celebrazione dell’attimo“.

Per Steve Lacy, sassofonista, è invece “stare sempre sul confine dell’ignoto pronti al salto“.

Al confine del buio, sul limitare del baratro, in equilibrio sul filo, è come ci si sente a leggere CTP/Catania n. 4462/8/2020. E’ uno straniante senso di mancamento, di vertigine; una esperienza mistica, insomma.

La fattispecie. Si tratta di un ricorso avverso tasse automobilistiche per un importo di euro 457,25. Stante il valore, è con tutta evidenza un ricorso con valore di reclamo ai sensi e per gli effetti dell’art.17 bis. Il ricorrente, assumendo la illegittimità della notificazione, notifica il ricorso a mezzo pec in data 30.1.2018 e lo deposita in data 30.5.2018, in piena tempestività.

Rileva incredibilmente il Giudicante, dopo aver testualmente citato l’art. 22 comma 1 del d.lsg. 546/90, che il ricorso deve considerarsi inammissibile per violazione della norma citata, in quanto depositato “ben oltre il prescritto termine di trenta giorni dalla sua notificazione”. Un lampo. Un bagliore di luce tra le tenebre notturne.

E, a comprova che il dictum sia frutto di meditata ermeneutica, così prosegue “Nè può venire in soccorso del ricorrente il termine per il deposito del ricorso previsto dall’art.17 bis, comma 3 d.lgs. n.546/1992 (dallo stesso invocato nella memoria illustrativa), atteso che agli atti non risulta presentato, ai sensi del citato articolo, alcun reclamo; nè, d’altro canto, può ritenersi che, dopo la novella di cui all’art.9, comma 1, lett.l) d.lgs. n.156/2015, “il ricorso produce anche gli effetti di un reclamo” anche in assenza di una espressa volontà manifestata in tal senso dal ricorrente (NDR: ed invece è proprio così!!!), chè una tale interpretazione determinerebbe un’abrogazione tacita dell’art.22 comma 1 d.lgs n.546/1992 (NDR: perchè mai, di grazia???), pur in assenza di una univoca volontà in tal senso del legislatore, che anzi ha aggiunto il nuovo istituto del reclamo lasciando inalterato l’ordinario regime ex art. 22 comma 1, cit. .”

Come è universalmente noto, il ricorso, per le controversie sotto soglia, ha anche valore di reclamo. La procedura amministrativa obbligatoria volta alla composizione della lite, che si instaura per prescrizione normativa senza necessità di ulteriore richiesta apposita, costituisce condizione di procedibilità del ricorso, che diviene esperibile decorsi novanta giorni fissati per la conclusione della stessa. Da tale termine riprendono a decorrere i trenta giorni per la costituzione in giudizio davanti alla Commissione Tributaria.

Orbene, ogni linguaggio sottintende un errore, ed anche il linguaggio giuridico sottintende quindi anche di essere inteso in modo errato. Tuttavia il caso che ci occupa (invero senza alcuna sufficiente necessità…), manifesta la volontà dell’interprete di esuberare il proprio ruolo, ed abbracciare la “missione” espressiva, secondo visione autonoma, originale e creativa. Ed infatti, proprio in ragione della “novità della questione”, il ricorrente è stato graziato dalla rifusione degli oneri di giudizio.

Ma qui non ci imbattiamo in un caso di interpretazione creativa, intesa come quella che fornisce una delle interpretazioni possibili di ciò che non è precisamente determinato nella norma.

Il ricorso con valore di reclamo funziona proprio così. Lo stabilisce la legge. Si studia all’Università. Per questa alfabetizzazione, sarebbe sufficiente la cura della lettura dei manuali di diritto processuale tributario.

Perchè, ci insegna Bailey, “la capacità di improvvisare dipende in primo luogo dalla conoscenza”. Ecco.


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L’obbligazione tributaria: un tabù incompiuto.

La semiotica giuridica è quella scienza che studia il linguistico della norma, ossia analizza e riconosce quando un linguaggio (segno o representamen) assume valenza normativa. Il segno linguistico che coglie al meglio il tratto normativo è il verbo “dovere”, che caratterizza gli enunciati normativi che esprimono l’obbligo, la proibizione o il permesso di compiere determinate azioni.

Indiscutibilmente anche il diritto tributario si conforma diffusamente alla normatività deontica del linguaggio, in tal guisa esprimendo la prescrittività dell’obbligazione tributaria. Tuttavia, mi pare altrettanto interessante notare come in ambito tributario la relazione tra significante e significato sia, spesso, un processo che rinvia a qualcos’altro: aliquid stat pro aliquo (parafrasando Sant’Agostino).

In questo, istituti non marginali del diritto tributario, mi riferisco a quelle ipotesi di assolvimento non tempestivo dell’obbligazione tributaria ed alla disciplina che ne gestisce le modalità di recupero degli effetti (come il ravvedimento operoso oppure il cd. condono), sembrano rinviare ad un metatesto di matrice ascetico penitenziale.

Essi esprimono, nella loro semantica, tutta la carica di emotività liturgica che il legislatore si augura promani dal contribuente penitente nella sua pratica di espiazione, in forza del ritardato assolvimento di un obbligo necessitato, cui la norma correla una sanzione affievolita, ma assunta spontaneamente in assenza di constatazione. 

Insomma paghi in ritardo e ti cospargi il capo di cenere.

È innegabile, senza scomodare Hegel, che il senso di questa operazione di eticizzazione teologica di una obbligazione pecuniaria (speciale per quanto sia, questo è il contenuto della obbligazione tributaria), debba essere ricercato nella volontà di creare il tabù del mancato pagamento dei tributi. 

L’intento, non troppo dissimulato, consiste nell’alimentare una forte componente motivazionale inconscia che porti a considerare ineluttabilmente deprecabile il mancato assolvimento della obbligazione tributaria.

Orbene, lungi da me voler contestare il merito dell’obbligo di corrispondere le imposte, che è costituzionalmente statuito, pur rivendicando, per dovere professionale, il compito di difendere il cittadino contribuente in tutti i (frequenti) casi nei quali l’atto impositivo esuberi nelle forme e nei modi la capacità contributiva di ogni singolo cittadino.

Più interessante, invece, soffermarsi sulla efficacia di tale operazione semantica, o meglio socio semiologica. Perché, a dire il vero, malgrado questa torsione eticizzante, l’evasione fiscale pare non arrestarsi, così come inarrestabile ci appare il dilagare della spesa (effetto Covid a parte).

Forse, quindi, più che immaginare i contribuenti come primitivi devoti osservanti, sarebbe assai più civile riconsiderarli cittadini e, ripristinando il naturale equilibrio tra obbligatorietà del prelievo e continenza della spesa, de-eticizzare il precetto, stimolando la maturazione di una coscienza collettiva, e recuperare ex adverso il valore costituzionale della razionalizzazione dei costi di gestione della cosa pubblica, che è pur sempre causa e fondamento di un prelievo ormai insostenibile.

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AE ed i principi di diritto: l’apparenza del diritto vivente e frà Guglielmo da Baskerville.

Nell’ordinamento italiano il principio di diritto è l’interpretazione resa dalla Corte di Cassazione su una o più norme, sostanziali o processuali, all’esito di un ricorso per Cassazione proposto da una delle parti di un giudizio di merito, ovvero del ricorso nell’interesse della legge proposto dal Procuratore Generale.

Il principio di diritto, quindi, costituisce l’essenza della funzione di nomofilachia esercitata dalla Suprema Corte, intesa come massima espressione del potere di interpretazione delle norme, resa nell’interesse della legge.

Il consuetudinario reiterarsi di una interpretazione giurisprudenziale realizza quello che è solito qualificarsi come diritto vivente, ossia la communis opinio maturata nella giurisprudenza in ordine al significato normativo da attribuire ad una determinata disposizione.

Da un paio d’anni, sul sito dell’AE, nella sezione dedicata alla pubblica diffusione delle risposte rese dall’amministrazione finanziaria in ossequio agli obblighi ad essa imposti dall’art.11 dello statuto del contribuente, è possibile imbattersi in una pagina intitolata appunto “principi di diritto”.

La pagina si associa ad altre pagine che raccolgono, sub specie di circolari o risoluzioni, gli esiti ad istanze di interpello o consulenza giuridica, che i cittadini contribuenti rivolgono all’AE.

Essa, come espressamente chiarisce il provvedimento direttoriale che l’ha istituita, raccoglie quanto reso dalle strutture centrali, garantendo la pubblicità dei soli “principi di diritto espressi nella risposta” omettendo qualsiasi riferimento anche alla fattispecie oggetto del quesito, quando la pubblicazione possa recare pregiudizio concreto ad un interesse pubblico o privato. Ciò, a tutela del mercato, della concorrenza, del diritto alla protezione dei dati personali, della proprietà intellettuale, del diritto d’autore e del segreto commerciale.

Trattasi di una attività che lo Statuto impone all’amministrazione, affinché il proprio operato non rimanga oscuro, così come chiarisce il provvedimento direttoriale del 7 agosto 2018 prot. 185630/2018, nel quale si precisa che tale potestà “si informa al principio di trasparenza dell’azione amministrativa ed è effettuata al fine di favorirne l’efficacia, l’imparzialità e la pubblicità, consentendo al contribuente la più ampia conoscenza di tutte le soluzioni interpretative adottate dell’Agenzia nell’ambito dell’istituto dell’interpello”.

Che ci azzecca, quindi il “principio di diritto”?

Qualificare in tal guisa le proprie, personalissime, interpretazioni di norme di nuova emanazione ovvero di controversa applicazione costituisce una fine attività di dissimulazione, finalizzata ad attribuire il sigillo della terzietà, per il tramite di un camouflage nominalistico, a soluzioni interpretative rese dalla parte pubblica che esercita il compito istituzionale di accertamento e riscossione dei tributi e che, per tale scopo istituzionale, di certo non si fa apprezzare per interpretazioni benevole a beneficio dei cittadini contribuenti.

Ed allora?  Stat rosa pristina nomine. Frate Guglielmo da Baskerville lo scoprì, dopo lunghe e perigliose indagini. 

Il principio di diritto, in quanto tale, non emana mai da una delle parti. La qualifica quindi non attribuisce valore “originario” al contenuto di una semplice soluzione interpretativa non trasfusa in un provvedimento giurisdizionale. 

Nessuna interpretazione assurge a principio di diritto, se non dopo un (lungo ed incerto) giudizio che lo abbia statuito. 

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Leva fiscale e leva finanziaria: cartolarizzazione dell’agevolazione fiscale Covid e vincoli europei.

Nasce dall’emergenza Covid un nuovo connubio tra strumenti apparentemente distonici al fine di recuperare il gap di liquidità che la sosta forzata ha determinato in economia.

La pandemia non è stato un evento calamitoso in senso classico, circoscritto sul territorio, ma indiscutibilmente qualcosa di profondamente diverso. A tale spiazzante ondata di devastazione umana ed economica non è possibile pensare di poter opporre strumenti, definizioni e risposte tipiche della fiscalità emergenziale, per come oggi conosciuta. Ci si attende, da cittadini, ma anche da professionisti vicini per natura alla vita delle imprese, risposte straordinarie nella loro capacità di visione di lungo periodo, ma credo soprattutto, straordinarie nella capacità di concreta e veloce realizzazione. La macchina organizzativa deve infatti dare risposte efficaci alla necessità di liquidità e di accesso al credito, pena l’annientamento del tessuto connettivo dell’economia.

In questo contesto, caratterizzato da scarsità di mezzi adeguati, la risposta del legislatore dell’emergenza ha immaginato di convertire il risparmio di imposta in titolo circolabile, adattando una risposta tipica del mercato finanziario (la cartolarizzazione) all’istituto dell’agevolazione fiscale.

L’agevolazione fiscale è stata diffusamente declinata nelle forme del credito d’imposta.

L’escussione fiscale su fatti economici ed atti giuridici è stata infatti ammortizzata mediante la concessione di un credito d’imposta in quota percentuale al beneficio realizzabile. Beneficio che è stato concesso in proporzione al danno causato dal Covid che la manovra intende in qualche modo risarcire. Questo meccanismo sterilizza l’incidenza sul calcolo dell’imposta a regime, che rimane invariato, contestualmente valorizzando il correlativo beneficio fiscale che verrà riscosso in dichiarazione, sul coacervo. Generalmente, ma non necessariamente, questo recupero si associa ad una diluizione del tempo di rientro, in questo modo realizzandosi una vera e propria “cartolarizzazione” del diritto di credito (d’imposta), in modalità perfettamente sovrapponibile a ciò che accade all’ammortamento di un mutuo.

Il beneficio d’imposta diventa in questo modo un fatto finanziario.

In alcune ipotesi innovative, estremizzando al massimo il concetto di cartolarizzazione, al credito d’imposta è stato attribuito il valore cartolare della trasferibilità, seppur condizionata e non totalmente libera. Tale evoluzione non si spinge ad attribuire al credito (d’imposta) la libertà di circolazione tipica dei titoli di credito (cambiali ed assegno), purtuttavia sposta in avanti, in maniera evidente, il limite, consentendone la conversione in valore, e sopratutto spersonalizzando il beneficio fiscale dal soggetto titolare del beneficio concesso.

L’influenza della legislazione europea nella scelta di cartolarizzare il debito fiscale.

In realtà, la scelta del legislatore dell’emergenza non appare una libera determinazione. Essa riflette, in un modo assai invasivo e pregnante, il vincolo nascente dalla legislazione europea. Illuminante, sul punto, la lettura della “Comunicazione della Commissione Europea” datata 19.3.2020, intitolata “Quadro temporaneo per le misure di aiuto di Stato a sostegno dell’economia nell’attuale emergenza Covid-19”.

Il documento è una presa d’atto che la pandemia “comporta il rischio di una grave recessione che riguarda l’intera economia dell’UE, dal momento che colpisce imprese, posti di lavoro e famiglie”. Da tale consapevolezza, se ne deduce la necessità di un sostegno mirato “per garantire la disponibilità di liquidità sufficiente sui mercati”.

Il legislatore comunitario, però, ha in gran conto l’equidistanza che deve sussistere tra sostegno e sussidio, nonchè la particolare attenzione che il regolatore deve imporsi nel mantenere ben saldo il limite del vincolo all’aiuto di stato, affinchè “le condizioni di parità rimangano intatte”. E’ un concetto di ferrea applicazione, ben noto ai paesi di tradizione più liberista del nostro; assai rispettato, molto più che dal nostro, che dell’assistenzialismo statalista ne ha fatto una bandiera. In buona sostanza, secondo una lettura rigorosa del Keynes più liberale, le regole ferree del supporto economico non costituiscono l’occasione per una alterazione del mercato.

La manovra è innovativa e concettualmente interessante, pur con correlative criticità facilmente immaginabili.

L’innesto di natura finanziaria sul meccanismo del tributo lascia inalterata la pressione fiscale, non introducendo ipotesi di variazione in diminuzione dell’imposizione a regime. La riduzione è riconosciuta a fatti e soggetti specifici e contingenti, ed in quanto tali, destinati ad esaurire gli effetti nel termine disposto.

Ovviamente tale approccio apparirà insufficiente (ed invero tale è la diffusa critica, proveniente sia dall’utente finale che dalla politica). Ed effettivamente insufficiente è, laddove in realtà la pandemia e gli strumenti assunti potessero essere intesi quali strumenti straordinari per riequilizzare situazioni compromesse non già dal Covid, bensì da visissitudini gestionali radicate se non cronicizzate.

Nel documento sopra richiamato, la Commissione Europea, segnatamente al punto 3, “definisce le condizioni di compatibilità che applicherà in linea di massima agli aiuti concessi dagli stati membri a norma dell’art.107 paragrafo 3 lettera b) del TFUE”.

L’orizzonte del divieto dell’indebita concessione di aiuti di stato è evidente.

L’art.26 del DL 34/2020 cd decreto rilancio: una norma scritta dal legislatore europeo.

Si tratta di misure rivolte ad una platea di imprese che rivestono la qualifica di società di capitali, già connotate da forte presenza economica, che nel 2019 abbiano rilasciato un fatturato che varia da cinque/dieci a cinquanta milioni; e che, stante intercorsa diminuzione dello stesso nei mesi Covid nell’ammontare non inferiore al 33%, possono godere della concessione di un rilevante ammontare di credito di imposta sulle delibere di aumento di capitale debitamente sottoscritte e versate; uguale beneficio è concesso al singolo sottoscrittore; possono emettere titoli di debito che verranno sottoscritti da un fondo apposito denominato Fondo patrimonio PMI affidato ad Invitalia, con ciò quindi accedendo a finanza agevolata da rimborsare nel termine di sei anni, con ampia possibilità di utilizzo di risorse appunto fiscali/finanziarie per strutturarsi.

Il cennato articolo precondiziona adozione di tali benefici ad un range di requisiti assai stringenti tra i quali spicca il comma 2 lettera b) a tenore del quale le imprese societarie devono trovarsi “in situazione di regolarità contributiva e fiscale”. L’insieme delle precondizioni di accessibilità, come anche il dettaglio dei requisiti soggettivi ed oggettivi, sono stati pedissequamente copiati ed integralmente mutuati dalla raccomandazione europea, segnatamente al punto 3.1. Tutto ciò, si immagina, per ovviare ai rischi di imputazione dell’aiuto di stato esuberante dai limiti stringenti del verbo comunitario.

E’ certo che la forza contrattuale del legislatore nazionale si palesava assai fragile, fiaccata dal tragico effetto congiunto delle istanze antieuropee e delle politiche populiste. E’ parimenti vero che i vincoli alla politica nazionale si sono manifestati in misura opprimente, stante che la ratio del sostegno, ossia il lockdown da Covid, avrebbe potuto (probabilmente avrebbe dovuto) richiedere risposte tarate sui diversi stati di fatto dello stato richiedente.

Ma ciò avrebbe necessitato riconoscere che la discriminazione qualitativa delle soluzioni non confligge, anzi si coordina, con il rispetto del principio di uguaglianza. Anche a livello comunitario.

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Il paradosso della quarta pec.

Il paradigma architettonico del PCT si concretizza nella resa in forma e contenuto digitale di prassi giudiziarie. Mai come in questo caso il termine processo, di per sé consistente nel percorso preordinato e coordinato di un insieme di attività finalizzate ad un esito predefinito, avrebbe dovuto esprimere naturali affinità ontologiche, oltre che meramente lessicali, tra informatica e diritto. In entrambi i casi l’esecuzione di un programma di attività in modo sequenziale è finalizzato ad uno scopo. Le sequenze sono preordinate, seppur variabili, rispetto alla finalità da raggiungere. Il programma ovvero il software “gira”, se raggiunge lo scopo prefissato; il processo funziona se al suo esito il giudice emette una sentenza.

Eppure, per un normale utente di internet via pc, un fruitore di smartphone, oppure un gamer compulsivo, l’esperienza con il PCT apparirebbe straniante, innaturale e forzata. Si tratta di una roba talmente pesante e farraginosa che, per dare un’idea delle complessità di utilizzo, paragonerei all’esperienza di un giocatore di Fortnite costretto a giocare a Pac-man.

Una delle peculiarità più contestate del PCT è che qualsiasi atto o documento inserito in piattaforma rilascia ben QUATTRO (!!!) ricevute pec.

Ragionando in modalità informatica, le quattro pec costituiscono la parcellizzazione di un thread of execution, quello che traducendo dal gergo informatico potremmo rendere come il filo dell’esecuzione.

Accettazione, consegna, esito dei controlli automatici ed esito del controllo manuale del cancelliere costituiscono con tutta evidenza una sequenza necessitata.

In realtà il filo dell’esecuzione si tramuta in un filo di Arianna, e spesso, nella sua trama complessiva, nella tela di Penelope. Quanto infatti di questi passaggi, obbligatori ed invalidanti, nasce digitale? Ovvero, a contrario, quanto di questi passaggi è giusprocessualistico? In altri termini, ognuna di queste parti di sequenza risponde e si giustifica rispetto ad esigenze giuridiche ovvero si è resa necessaria in funzione della digitalizzazione?

Il problema è che il Pct non nasce digitale, si adatta, si sforza di apparire digitale, si veste di digitale ma permane intimamente analogico.

La soluzione dei quesiti appena riassunti, allora, non risolve soltanto una esigenza di natura ermeneutica, ma si tramuta in un miglioramento della funzionalità del servizio. E quindi fa emergere il valore aggiunto del passaggio all’ecosistema digitale.

Necessita allora riassumere le esigenze sottese al singolo frame di sequenza e, di conseguenza, verificare se le cennate esigenze sono state rese nella forma più pienamente digitale, di tal che, eventualmente, una forma digitale più “pura” non possa prevedere una valida alternativa, atta a garantire che l’evoluzione tecnica del sistema garantisca le esigenze di semplificazione cui il processo di digitalizzazione aspira.

Le prime due ricevute, generalmente rese in forma quasi simultanea al deposito in piattaforma, sono le consuete ricevute rilasciate da qualsiasi pec. Sarebbe lo stesso ove depositassi per posta raccomandata: attestazione di spedizione, ricevuta di consegna. Sulla originalità tutta nostrana del sistema pec rispetto a al sistema generalizzato di certificazione digitale basata su crittografia asimmetrica, per adesso può essere utile non soffermarsi. Nel PCT, peraltro, firma digitale dell’atto e ricevuta pec del suo deposito si sommano.

La terza ricevuta attesta l’avvenuto esito positivo di una serie di controlli automatici cui la cd. busta (anche questo è un concetto del tutto analogico) viene sottoposta. Si tratta di controlli spiccatamente digitali (errori tecnici di formazione del file, certificato di firma scaduto o non valido) ma anche tecnico giuridici (attinenti alle condizioni soggettive dell’avvocato firmatario, ad esempio radiazione, sospensione o cancellazione; oppure condizioni oggettive del firmatario rispetto al processo, ad esempio non coincidenza del firmatario rispetto al procuratore in atti).

La quarta, come sappiamo, equivale al timbro di depositato del cancelliere. Qui il sistema analogico esprime tutta la propria resistenza al cambiamento. Un po’ come il tassista contro Uber.

In realtà, in altre esperienze, di egual peso ed importanza, il rapporto tra cittadino e amministrazione dello stato, pur riguardando la comunicazione formale di dati “sensibili”, è stata architettata secondo modalità più snelle. Pur essendo correlata a scadenze fisse ed irrevocabili. Si pensi alla trasmissione della dichiarazione dei redditi, la cui omissione è sanzionata amministrativamente ed anche (se del caso) penalmente, che va esercitata appunto entro una data di scadenza fissa, ed il cui adempimento è esercitato per il tramite di un professionista delegato. In questo caso, foss’anche per una multinazionale con stabile organizzazione in Italia, come pure per il salumiere sotto casa, il sistema digitale consegna una sola ricevuta. Anche nelle sperimentazioni del PTT (processo tributario telematico), anch’esso, per inciso, gestito dal MEF e non dal ministero della giustizia, ad ogni deposito corrisponde una sola ricevuta.

Pur affrontando problematiche analoghe, la soluzione organizzata dal MEF appare incredibilmente più digitale e quindi, immediatamente più fluida. Concretamente semplificativa.

Quanto ai controlli giuridici sull’operatore, nei sistemi organizzati dal MEF le condizioni soggettive dell’intermediario (sospensione, cancellazione, revoca o morte) determinano la immediata impossibilità di accedere alla piattaforma. Sotto questo profilo, la cautela è sicuramente più ampia e più efficace.

Quanto invece ai controlli di conformità del file da spedire (la famosa busta), l’Agenzia delle Entrate, che per conto del MEF gestisce il sistema, rilascia gratuitamente i software di controllo. L’operatore esamina il file, il software di controllo rilascia un diagnostico, l’operatore verifica la insussistenza di errori, o, se del caso, opera le dovute correzioni prima dell’invio. Laddove invece, il file, pur verificato, si deteriori in corso di spedizione, apposita norma espressa autorizza il re-invio del file la cui ricevuta attesti una irregolarità tecnica inaspettata entro cinque giorni dalla scadenza, che in questo caso viene prorogata per legge, senza effetti per contribuente ed intermediario.

Ogni anno in Italia vengono presentate oltre 40 milioni di dichiarazioni, la cui presentazione è attestata da UNA sola ricevuta. Il sistema è tra i più evoluti al mondo. E’ considerato una eccellenza italiana.

Diversamente, per il PCT, il paradosso della quarta pec.

Una norma la prevede, la giurisprudenza sostanzialmente la ignora, gli operatori pregano che arrivi.

Come dire: i software girano a mille, i processi, come al solito, stagnano.