Categorie
About Processo tributario

Conciliate, “ove possibile…”

Riflessioni asistematiche sulla nuova potestà conciliativa della Corte di Giustizia Tributaria.

Image by Unsplash

L’art.48 bis .1 del d. lgs. 546, introdotto dalla riforma di agosto, è una norma sicuramente innovativa per il giudizio tributario.

Essa attribuisce alla Corte di Giustizia Tributaria la potestà autonoma di formulare una proposta conciliativa della controversia. La norma invita la Corte ad attivarsi, mediante la formulazione di una proposta anche fuori udienza, a che le parti trovino la quadra in forma concordata. Evidentemente il Legislatore confida nella sua efficacia, ed infatti la norma è entrata in vigore già da settembre e riguarda tutti i giudizi, sia quelli in tema di impugnativa di atti impositivi ma anche quelli di rimborso. Il processo verbale che perfeziona l’accordo costituisce infatti titolo per la riscossione delle somme dovute all’ente impositore ma anche per il pagamento di somme dovute al contribuente.

La potestà conciliativa è limitata alle controversie soggette a reclamo; quei giudizi di valore limitato (ma non troppo…), per i quali il ricorrente soggiace al riesame obbligatorio da parte dell’Ufficio. Se a ciò vogliamo associare anche l’eventuale svolgimento della fase di contraddittorio preventivo, ove esperibile, e’ evidente, anche alla luce della introduzione nell’art. 17 bis della responsabilità del funzionario riottoso, che il Legislatore, riguardo questi giudizi nei quali il contatto tra il contribuente e l’Ufficio non ha sortito esiti di comunicabilità in più di una occasione, non abbia gran cura a che la Corte eserciti il proprio compito essenziale, ossia quello di emettere sentenza.

Tale scelta di politica giudiziaria sembra condizionata dalla volontà di accelerare la definizione delle controversie più numerose e meno rilevati sotto il profilo del valore in contestazione, oltre che da esigenze di pronto recupero. La formazione del titolo accelera di certo la realizzabilità del prelievo, seppur in modalità compositiva e quindi esente da dictum.

Tale sensazione si rafforza osservando come la norma inviti la Corte, nell’esercizio del suo nuovo compito proattivo, ad aver “riguardo all’oggetto del giudizio e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione”. Mutuando lo schema del 185 bis cpc, quando il giudizio è di agevole definizione, la Corte è sollecitata a non giudicare (il che mi pare proprio un ossimoro). Questa assonanza normativa, tuttavia, viene ad introdursi in un giudizio, quello tributario, che non tratta diritti disponibili. La limitazione che circoscrive gli atti compositivi nel giudizio civile ai diritti disponibili non trova correlazione nel giudizio tributario, la cui materia del contendere è la pretesa tributaria dello Stato, come è noto, coperta dal principio di indisponibilità. Principio che, anche sotto questo profilo, come ormai desumibile da plurimi indizi convergenti, pare vacillare.

A questa lettura, per così dire ontologica, della nuova disposizione, si aggiunge una ulteriore difficoltà, nascente dal parallelismo tra il giudizio civile e quello tributario. Laddove il primo può infatti sfociare nella richiesta compositiva dopo la prima sequenza di memorie, e quindi lo svolgimento articolato di più atti di reciproca esplicitazione delle ragioni di fatto e di quelle giuridiche in conflitto, il giudizio tributario giunge a trattazione senza che il contraddittorio tra le parti si sia ancora esplicitato, trovandosi invece di fronte, visto lo schema tipico degli atti, da un lato l’atto impositivo e dall’altro il ricorso, entrambi assolutamente vincolati ad esprimere compiutamente da un lato la pretesa impositiva puntuale e dall’altro tutti (nessuno escluso) i motivi di doglianza esperibili, pena la reciproca soccombenza. Di certo atti tipici non suscettibili di sottoporre al vaglio della Corte opzioni alternative di negoziazione, che sarebbero immediatamente sanzionate dalla controparte come assunzione di consapevole fragilità del contrapposto impianto probatorio a sostegno.

Ed allora si pone il problema di come verrà interpretata questa potestà. Ovvero come la Corte intenderà esercitare nel concreto questa sollecitazione a conciliare.

Dall’ascolto dei primissimi contributi interpretativi mi è parso di cogliere due diverse letture della facoltà conciliativa.

Da un lato la conciliazione prognostica.

In questo caso la Corte, prefigurato l’esito del giudizio, avrebbe agio di esprimere una proposta in linea con la emananda sentenza, seppur non compiutamente aderente ad essa, al fine di agevolarne l’adozione. La proposta quindi dovrebbe seguire una succinta delibazione degli atti di causa e, appunto, prefigurandone gli esiti, esprimere un contenuto che se ne discosti giusto il minimo necessario per convincere le parti ad accettarne spontaneamente gli esiti.

Ovvero la proposta potrebbe orientarsi a trovare la conciliazione nel dialogo tra le parti. Potremmo quivi parlare di conciliazione transattiva ovvero intercessione conciliativa, nel senso che più che la forza del giudicato emanabile (che in realtà nella conciliazione non si manifesta) la Corte dovrebbe esercitare poteri di suasion tra le parti ricercando un minimo comune denominatore sufficiente anche allontanandosi (non troppo, temo…) dalla prefigurazione del possibile esito del giudizio.

Nell’un caso o nell’altro, la proposta, che norma vuole formulata in udienza ovvero anche fuori udienza, e per questo comunicata alle parti, dovrebbe contenere non già una compiuta motivazione (la quale potrebbe essere contestata per il suo contenuto anticipatorio) ma almeno un succinto riepilogo giustificativo, che ne agevoli la comprensione e, casomai, il perfezionamento. Il tutto, ovviamente, facendo sempre riferimento all’oggetto del giudizio ed alle questioni di pronta soluzione.

“Ove possibile…” come auspica la norma.

L’art 48 bis punto 1, tuttavia, si presta a derive orientate, e per questo temo che potrebbe affermarsi una sorta di conciliazione surrogatoria.

La conciliazione potrebbe rivelarsi lo strumento più adatto per fornire una stampella ad un provvedimento impositivo scarsamente motivato, inducendo comunque una composizione al rialzo, ovvero, specularmente, il depotenziamento di una difesa solida e la prona accettazione di una vittoria non piena, pur in presenza di valide ragioni sostenibili. Insomma, un rinnovato potere induttivo, che, associato all’utilizzo delle spese di lite, orienti il contribuente a desistere dalla propria naturale propensione alla ricerca di una interpretazione favorevole della norma tributaria.

In questo, l’istituto potrebbe rivelarsi come una vera e propria epifania. L’occasione tramite la quale la Corte potrebbe svelare la sua più intima natura, quella pars non teleologicamente neutrale, indicativa della consapevolezza messianica del proprio ruolo e del compito svolto.

Una incredibile occasione di pubblico svelamento della “verità”, già nota e quotidianamente sperimentata dalle difese.

Perché il potere di indurre la composizione è assai più incisivo della peggior sentenza apoditticamente motivata.

Ed allora: conciliate, “ove possibile…”.

Categorie
Accertamento Diritto Tributario Skills

Quando la prova di resistenza te la offre la sentenza di CTR che ti ha dato torto.

Photo by Mike Walter – Unsplash

I ricorsi in tema di contraddittorio endoprocedimentale sono ormai standardizzati da una giurisprudenza consolidata.

Non capita quindi di imbattersi in particolari novità sul punto, ovvero in situazioni impreviste, sia sotto il profilo della ricognizione della fattispecie sia sotto il profilo della qualificazione giuridica dei comportamenti degli attori in gioco.

La giurisprudenza, tuttavia, offre a volte opportunità anche quando lo scenario difensivo si sia prima facie prospettato di difficile approccio, come in una recente esperienza, pesantemente condizionata dalle fragilità del giudizio di merito.

Quanto ai profili di legittimità, la narrazione scorre con fluidità. Ma quando si passa allo svolgimento delle argomentazioni in tema di prova di resistenza, il discorso sembra arenarsi. Il merito del giudizio è rimasto infatti in penombra: il difensore ha detto di aver scritto note e controdeduzioni al PVC, ma ha omesso di riprodurne il dettaglio. Addirittura il Giudice del secondo grado si astiene dall’affrontare il merito, adducendo la mancata esplicita riproposizione dei motivi in sede di controdeduzione all’appello dell’Ufficio.

Sul punto, segnalo l’utilità e la pertinenza di una recente ordinanza della Suprema Corte, resa dalla Sez. VI^ e segnatamente la n. 16374/2022.

La Corte esamina un ricorso promosso dall’Ufficio che lamentava vizi nella sentenza, ed in particolare il non aver “…la CTR esplicitato le ragioni per le quali l’apporto probatorio della parte contribuente sarebbe da ritenersi significativo e tale da superare la prova di resistenza richiesta per far valere il vizio dell’atto impositivo per mancato avvio del contraddittorio preventivo”.

Sul punto, la Corte smentisce l’Ufficio e così si esprime: “nel caso di specie, la CTR a pag. 3, ultimo capoverso, ha fatto buongoverno di questi principi avendo dato conto delle ragioni per cui ha ritenuto valido l’apporto probatorio che il contribuente avrebbe potuto offrire ex ante, dimostrato dai fatti, in principalita’ proprio dalla circostanza che un rilevante importo dell’avviso di accertamento e diverse voci di ripresa a tassazione sono state annullate in sede di autotutela, dimostrando la fondatezza di quegli stessi argomenti che avrebbero potuto essere rappresentati in sede endoprocedimentale, secondo quello che sono ratio e telos della norma.”

In buona sostanza, la Corte ci ricorda che l’avvenuto annullamento operato dall’Ufficio in autotutela è sufficiente a dimostrare la fondatezza di quegli stessi argomenti che avrebbero potuto essere rappresentati in sede endoprocedimentale, ove, appunto, il contraddittorio si fosse tenuto.

Il precedente ben si adatta alla sentenza da sottoporre a gravame, nella quale la CTR ci dice che “nel caso di specie l’invocato contraddittorio ha avuto piena attuazione, seppure in assenza di un “invito” da parte dell’amministrazione fiscale, giacchè la società interessata ha presentato articolate e puntuali “osservazioni e controdeduzioni” (depositate in atti) che l’Ufficio ha debitamente esaminato, accogliendole nella parte in cui erano supportate da idonea documentazione giustificativa.

In buona sostanza, la CTR assume che la presentazione delle osservazioni al PVC, e l’eventuale accoglimento implicito di alcuni rilievi, sono essi stessi un contraddittorio sufficiente, “seppur in assenza di invito”.

Pur assumendo, quindi, la sussistenza dell’avvenuta prova delle valide ragioni per l’avvio della specifica procedura preventiva, la CTR ne svaluta la necessità, sostanzialmente ritenendo che il contraddittorio sia un orpello trascurabile.

Ma tale ricostruzione non appare conforme allo spirito della norma (“ratio e telos” dice la Corte). Norma che mira appunto a certificare la necessità ineludibile di un incontro preventivo tra le parti finalizzato a prevenire l’attività accertativa ovvero a ricondurla esclusivamente alle residue ragioni di inconciliabile contrasto.

La prova era lì. Bastava apprezzarla adeguatamente.

Categorie
Diritto Tributario Skills

Ristretta base: l’esposizione in bilancio degli utili accertati vince la presunzione di distribuzione.

La sentenza n. 7325/2021 della CTP/Catania ha disposto l’annullamento di un avviso di accertamento emanato da Agenzia delle Entrate per il recupero della ritenuta alla fonte su utile occulto presuntivamente oggetto di distribuzione, emerso a seguito di verifica nei confronti di una società a ristretta base familiare, assumendo che l’esposizione integrale degli utili oggetto di accertamento nel bilancio della società costituisce prova contraria sufficientemente valida a vincere la presunzione di distribuzione.

La fattispecie.

Agli esiti di una attività di verifica, GDF emetteva e notificava PVC. Sussistendone i presupposti, la convenienza economica e l’opportunità (ossia la necessità di ottenere il dissequestro penale di somme vincolate alla rifusione del profitto del reato) la società contribuente aderiva alla definizione integrale del cennato PVC ai sensi e per gli effetti dell’art.1 del decreto 119/2018, per tutti gli anni d’imposta oggetto di recupero.

Come è noto, la “rottamazione” presupponeva l’onere di depositare una dichiarazione integrativa, che ricalcolasse l’imponibile integrandolo con il maggior utile accertato, conseguentemente esponendo il debito fiscale oggetto di recupero.

Essendosi determinata al compimento di tali adempimenti, l’assemblea della società deliberava delegando l’amministratore a predisporre e presentare le dichiarazioni integrative richieste dalla norma, nonchè ad appostare nel bilancio di esercizio relativo all’annualità di accertamento e di definizione l’ammontare complessivo di utile accertato, quale presupposto logico giuridico (oltrechè contabile) del debito per imposte che si accingeva ad esporre.

Tale correzione è stata realizzata mediante il deposito del bilancio di esercizio relativo all’anno d’imposta 2019, nel cui contesto gli utili accertati in seno al PVC sono stati esposti integralmente (quindi per tutte le annualità oggetto di di “rottamazione”) appostandoli a riserva di utile disponibile ma non distribuibile.

Il giudizio.

Seppur oggetto di definizione, Agenzia delle Entrate recuperava a tassazione con distinti avvisi di accertamento, alla società, per la componente relativa alla ritenuta alla fonte presuntivamente non effettuata e versata, e, parallelamente al socio di maggioranza, il maggior utile accertato, assumendone presuntivamente la occulta distribuzione.

La Commissione Tributaria risolveva il giudizio con la sentenza citata, assumendo in punto di fatto che la società contribuente, dichiarando l’inclusione nel proprio bilancio di esercizio degli utili oggetto di accertamento, “introduce una prova contraria, attraverso l’integrazione di fonti di prova sufficientemente valide” che sconfessa la ripartizione degli utili presunta dall’Ufficio, cui “l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di rispondere, introducendo elementi positivi di dimostrazione dell’avvenuta distribuzione (ulteriori, ovviamente, rispetto alla presunzione)” e conclude affermando che, nel caso in esame, “può essere vinta la presunzione di distribuzione, avendo la ricorrente fornito plausibile argomento in ordine alla non distribuzione dei maggiori ricavi”.

Qualche riflessione.

Inutile rammentare, trattandosi di fattispecie nota e diffusissima, come l’accertamento avversato trovi supporto nei consueti argomenti a sostegno, ossia vincolo di complicità tra i membri di una comunità ristretta; sussistenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza ai sensi dell’art.38 comma 3 del DPR 600/73; gestione patologica della distribuzione degli utili, che in quanto tale, non necessiterebbe di apposita deliberazione in quanto realizzatasi in forma dissimulata, proprio al fine di rimanere occulta ed ignota al fisco.

Parimenti note sono le doglianze della dottrina più garantista, a tenore della quale si rileva che la presunzione, tutta di matrice giurisprudenziale e quindi non codificata normativamente, inverte l’onere della prova manipolando la regola di cui all’art.2697 c.c..

Nei fatti i difensori sanno che l’avallo sistematico della giurisprudenza finisce per omologare la presunzione giurisprudenziale alla presunzione legale, come se, per intenderci, fosse un precetto a giustificare l’eccezione alla regola e non invece una mera ricostruzione ermeneutica.

Il Giudice tributario, nel caso che ci occupa, ha valorizzato il fatto dell’avvenuta contabilizzazione e della successiva esposizione a riserva di bilancio disponibile ma non distribuibile come sufficientemente adeguato a contrastare la presunzione di distribuzione, uniformandosi a (non numerosi ma recenti) stacchi giurisprudenziali promananti dalla Suprema Corte, (Cass.923/2016, e, con ordinamento costante: Cass. 7119/2021; 34282/2019; 27637, 27638, 27639/2019).

Da questo ad immaginare di aver rinvenuto uno strumento di prova adeguato a supportare la difesa nei numerosissimi contenziosi che la ristretta base ci occupa con quotidianità, credo ne corra.

Nel caso che ci occupa (si badi, ad oggi non acquisito a valore di giudicato) diversi sono i profili che hanno contribuito a creare un contesto di ascolto. La circostanza che la società abbia assunto l’obbligazione di pagamento integrale della pretesa a monte; che la compagine societaria abbia operato nel senso di vincolare la riserva con il crisma della indistribuibilità; la dichiarata volontà di effettuare la correzione dei dati di bilancio quale obbligo necessitato ai sensi e per gli effetti dell’art.2423 c.c., in quanto necessaria a giustificare nei riguardi dei terzi la provenienza del debito accertato e non contestato. Argomenti in prevalenza metagiuridici, sebbene suggestivi, in un ambito di personalità sensibili sul punto.

Parimenti, è indubitabile che la notifica di un avviso di accertamento (promanante da PVC) imponga, per regola di corretta tenuta, la esposizione in contabilità del maggior utile accertato e del debito per imposte che ne promana; laddove invece le conseguenze dell’avvenuta impugnazione, ove intrapresa, andrebbero prudenzialmente valutate mediante accensione di un adeguato fondo rischi da contenzioso.

Ad ogni buon conto, pare scorgersi (tra le righe, ma magari è solo un mero auspicio del professionista garantista) anche la consapevolezza che sia necessario, oltrechè opportuno, far rientrare la dinamica di questa tipologia di accertamenti in uno scenario in cui le parti, ognuno secondo il proprio ruolo ed in contraddittorio tra di esse, possano risolvere la controversia non più al comodo riparo della presunzione, bensì “introducendo elementi positivi di dimostrazione” delle contrapposte ragioni probatorie.

Il che, sarebbe cosa buona e giusta.