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La ricognizione del debito tributario nella esecuzione collettiva

Come è noto, nel quadro della gerarchia delle fonti, la legge speciale deroga la legge generale, foss’anche quest’ultima sia stata emanata successivamente alla prima.

La Cassazione, in una vecchia sentenza del 2006, per definire il rapporto tra norma generale e norma speciale utilizza una raffigurazione plastica: “È necessario, cioè, che le due disposizioni appaiano come due cerchi concentrici, di diametro diverso, in modo tale che quello più ampio contenga in sé quello minore ed abbia un settore residuo destinato ad accogliere i requisiti aggiuntivi della specialità”.

Il principio di specialità tuttavia non appare risolutivo laddove il concorso occorra tra norme speciali, ossia tra discipline antinomiche, ma pari ordinate. Diritto tributario e diritto concorsuale sono entrambe normative “speciali”. Il diritto tributario, poi, a differenza del diritto concorsuale, che ricade comunque nell’alveo della giurisdizione ordinaria, seppur speciale, gode anche di propria giurisdizione esclusiva.

In questo caso, potrebbe immaginarsi una rappresentazione figurativa per cerchi parzialmente sovrapposti, nei quali, la cointeressenza si materializzi solo in ambiti limitati. Entrambe le normative prevalgono nei propri ambiti di competenza esclusiva, ma sono correlativamente costrette a retrocedere, necessitando entrambe di ricondurre alla corretta ermeneutica degli istituti secondo la legge speciale che li disciplina, nelle molteplici occasioni di reciproco contatto.

L’approfondimento sugli effetti di questa correlazione gode di ampio studio ed approfondimento, oltre ad un ampio spettro di applicazione giurisprudenziale.

Utile per una visione d’insieme, una pubblicazione dell’Osservatorio Permanente della Giustizia Tributaria del 2017, e segnatamente del dott. De Matteis giudice della sezione fallimentare presso il Tribunale di Napoli e Giudice tributario, che offre un quadro ricostruttivo molto dettagliato. La problematica è quanto mai attuale in tema di transazione fiscale: nella stessa rivista il contributo di Angelo Cuva, che offre una visione ante litteram ed evolutiva del principio di indisponibilità della pretesa tributaria, oggi tanto attuale nella regolazione di questo istituto, tutt’ora ancora in divenire. Tutte queste ricostruzioni appuntano la loro attenzione agli effetti regolatori del diritto tributario successivamente al deposito in cancelleria della dichiarazione di fallimento.

Credo invece valga la pena approfondire un profilo inedito, che nasce dalla necessità di affrontare come professionisti una nuova occorrenza professionale, nascente dalla prassi operata per adesso presso solo alcuni dei Tribunali italiani (Catania, Bergamo, Piacenza, ma anche Milano e Napoli) di anticipare gli effetti dell’art.38 del nuovo codice della crisi d’impresa, a tenore del quale

“Il pubblico ministero presenta il ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale in ogni caso in cui ha notizia dell’esistenza di uno stato di insolvenza”,

orientando in modo fortemente estensivo il portato delle norme oggi vigenti, ossia l’art.7 della vigente LF che così recita:

“Iniziativa del pubblico ministero. Il pubblico ministero presenta la richiesta di cui al primo comma dell’articolo 6: 1) quando l’insolvenza risulta nel corso di un procedimento penale, ovvero dalla fuga, dalla irreperibilità o dalla latitanza dell’imprenditore, dalla chiusura dei locali dell’impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell’attivo da parte dell’imprenditore; 2) quando l’insolvenza risulta dalla segnalazione proveniente dal giudice che l’abbia rilevata nel corso di un procedimento civile”.

Non è rilevante al nostro discorso approfondire la legittimità di questa prassi interpretativa, tutta di derivazione giurisprudenziale, che qui volutamente si tralascia, anche perché le motivazioni dichiarate, tutte aventi giustificazione nella “salvaguardia di sistema”, di natura quindi teleologica, sono poco digeribili, per chi come noi difensori è solito analizzare la fattispecie concreta hic et nunc, nel suo concreto manifestarsi.

Più interessante invece approfondire le problematiche nascenti dall’osservazione dei casi, e sono la quasi totalità, in cui il PM agisce per la declaratoria dell’insolvenza attestata dalla sussistenza di un debito di imposta (e/o contributivo) esorbitante i limiti oggi in vigore per la fallibilità (dimensionali ex art.1 LF e quantitativi di scaduto ex art 5 L.F.).

In questo caso il PM agisce in supplenza del legittimo creditore Ente pubblico (Agenzia delle Entrate, Agente della Riscossione, INPS) dal quale, previa redazione di appositi protocolli d’intesa, acquisisce periodiche informative attestanti lo stato del carico debitorio numericamente più rilevante in capo a soggetti giuridici per i quali maturi il profilo soggettivo di fallibilità e, ove asseritamente sussistenti i vincoli di legge, avvii appunto l’azione presentando istanza di fallimento ed aprendo la istruttoria prefallimentare.

Ci si trova quindi a fronteggiare ambiti nuovi di difesa, nella quale l’imprenditore sottoponibile al fallimento, è impegnato a fornire la prova della sussistenza (o meno) del debito d’imposta, ovvero della sua procedibilità, innanzi ad un giudice che non è il giudice naturale precostituito per legge.

Il Giudice fallimentare infatti ha cognizione esclusiva nel proprio ambito di competenza; assume piena cognizione del debito quale indizio della avvenuta realizzazione dello stato di decozione. Esso tuttavia è privo di giurisdizione in punto di determinazione dell’an e del quantum del tributo.

Ecco spiegato il titolo di questa relazione, nella quale volutamente ho utilizzato il termine RICOGNIZIONE e non già il termine ACCERTAMENTO. Al Giudice concorsuale, essendo preclusa la cognizione tipica, è consentita la mera ricognizione del debito per imposte. Parlo di ricognizione nel senso lessicale di riconoscimento, secondo i canoni di disciplina disposti dalla legge tributaria.

Nell’ambito quindi della propria cognizione esclusiva, che nella fase prefallimentare è finalizzata alla individuazione dei presupposti di fallibilità, il Giudice concorsuale è vincolato ad effettuare una attenta ricognizione del debito tributario, che tenga cura ed osservanza della norma tributaria che ne regola il presupposto e la esecutività.

Tale necessità si impone con particolare urgenza laddove la pretesa creditoria per tributi, cui si vuol far discendere l’accertamento dello stato di insolvenza, non viene processata dal creditore ab intestato, ossia dall’Agente della Riscossione in rappresentanza dell’Ente Erariale che ha accertato la pretesa, ai sensi e per gli effetti dell’art 87 del DPR 602/73, bensì dall’Ufficio della Procura della Repubblica, nell’esercizio di una funzione di supplenza, cui però, con tutta evidenza, potrebbe non accedere il necessario tecnicismo in una normativa così mutevole ed, appunto, estremamente tecnica.

Proviamo quindi a fornire un minimo di casistica, avvisando che, trattandosi di ipotesi ancora limitate nell’alveo di una mera interpretazione non radicata su tutto il territorio nazione, esse appaiono solo esemplificative delle notevoli problematicità che, sono assolutamente certo, verranno a manifestarsi.

  1. Il debito tributario è portato da atti tipici, che seguono un procedimento amministrativo complesso, che deve essere compiuto, formalizzato ed opponibile al contribuente, che ha diritto ad esercitare l’opzione dell’impugnativa. Solo all’esito compiuto di questo percorso, il debito può considerarsi maturato e, ove impagato, eseguibile anche ai fini della maturazione dell’insolvenza.
  2. L’esecuzione collettiva non può essere l’occasione di un accertamento del debito d’imposta; questo perché al Giudice fallimentare (che è giudice ordinario) è preclusa l’attività di accertamento giudiziale del tributo, riservata, come è noto alla giurisdizione speciale delle Commissioni Tributarie.
  3. Tantomeno l’innesco della procedura concorsuale non può consentire l’accertamento di omissioni di imposta non precedute dall’attività accertativa resa amministrativamente dal soggetto giuridico ad essa deputata che è l’Agenzia delle Entrate. E ciò anche se tale omissione si sia manifestata agli esiti di indagini cui il PM abbi avuto accesso autonomo, laddove tali indagini non si siano ancora trasfuse nella emanazione di atti tipici del procedimento di accertamento, imposta per imposta.
  4. Non può determinare il fallimento di un soggetto giuridico in tutte le situazioni nelle quali il debito sia legittimamente sospeso in applicazione di una norma procedimentale amministrativa tributaria. Parlo di tutte quelle ipotesi nella quali la normativa tributaria stabilisce che un proprio atto di accertamento sia sospeso nella esecutività. Quindi sospensione amministrativa; sospensione per effetto di provvedimento di rateazione (della quale non sia stata effettuata la declaratoria di decadenza). Sotto questo profilo segnalo una ipotesi che mi è personalmente occorsa laddove il Tribunale di Catania ha disposto la reiezione dell’istanza di fallimento per “non attualità” del debito (di ingentissima entità) stante la pendenza della sospensione Covid19 (T/Catania decreto 3.12.2020).
  5. Quanto ai ruoli, diverse le problematiche immaginabili.
    • Le certificazioni del carico dei debiti comunicate da Agenzia, Inps e Agente della riscossione spesso si sovrappongono: avvisi di accertamento impoesattivi e avvisi di addebito INPS spesso sono esposti sia dall’Ente emittente che dall’Agente della riscossione e quindi necessita che il Giudice dell’istruttoria fallimentare abbia la capacità di riconoscerne la duplicazione.
    • Laddove poi il debito tributario fosse portato da ruoli assai risalenti nel tempo, potrebbe legittimamente obiettarsi la violazione dell’art 50 dpr 602/73 che come normativamente previsto, inibisce all’Agente della Riscossione l’avvio della esecuzione individuale a mezzo ruolo laddove la cartella di pagamento, notificata da oltre un anno, non venga preceduta dalla notifica di una intimazione di pagamento nel termine di cinque giorni. Cass. SS.UU 34447/2019 (in conformità al disposto della Corte Cost. n.114/2018 che ha sancito la illegittimità dell’art 57 comma 1 lett a) DPR 602/73 ed ha individuato nella notifica della cartella il discrimine tra il riparto di giurisdizione tra i vizi ante e post notifica del titolo) ha sancito che l’eccezione di prescrizione maturata successivamente alla notifica della cartella è di competenza del Tribunale fallimentare in sede di opposizione allo stato passivo e di insinuazione tardiva. Problematica tuttavia mi pare la gestione di tale cognizione in capo al Giudice dell’istruttoria fallimentare, stante le particolari esigenze di sommarietà che caratterizzano tale fase prodromica alla declaratoria dell’insolvenza.
    • Uguale necessità si offre rispetto alla procedura di cui alla Legge 228/2012, rispetto alla quale le pronunzie di merito sono pochissime. Ma anche in questo caso si pone il problema della corretta ricognizione del debito, laddove l’Ente creditore ometta la prescritta comunicazione nei termini di legge, cui segue l’annullamento di diritto delle partite ed il discarico automatico delle medesime e dei relativi ruoli.
  6. Diversamente segnalo Cass.28192/2020 sez.I^ per un utilizzo assolutamente non condivisibile della cd teoria dichiarativa dell’accertamento tributario. Assume la Corte (sezione non tributaria) che l’avviso di accertamento avrebbe funzione meramente ricognitiva del debito tributario che si assume preesistere appunto all’accertamento, a prescindere dalla trasmissione del carico fiscale al concessionario. La sentenza non consente una chiara ricognizione della tipologia di atto impositivo, limitandosi a parlare di avviso di accertamento, “conosciuto solo a seguito di interrogazione disposta dal Tribunale di Milano” e “non ancora passato al concessionario per la riscossione”.
  7. Ovviamente non può assumersi come debito la semplice notifica del cd avviso bonario. La vicenda è affrontata nell’ipotesi di ammissione al passivo del credito portato da avviso bonario non ancora tramutatosi in ruolo successivamente alla dichiarazione di fallimento, e risolta positivamente da Cass SS.UU 4126/2012, e precedentemente Cass. SS. UU.5165/2009. Orbene, a parte che rispetto a questo orientamento giurisprudenziale non v’è già unanimità di vedute (vedesi l’opinione contraria di Del Federico (in Rass. Tributaria n. 1/2015 CEDAM), concreto è il rischio di una deriva interpretativa che estenda anche alla fase prefallimentare l’ingresso di una pretesa non formalizzata in un titolo esecutivo tipizzato dalla norma tributaria, come nel caso precedentemente riassunto.

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E’ indiscutibile che, come è già desumibile da quest’ultimo arresto giurisprudenziale, come l’avvio a regime del codice della crisi di impresa imporrà una accelerazione di prassi oggi isolate, cui necessiterà approcciarsi con l’ausilio di nuova consapevolezza da parte di tutti gli attori in gioco.

Quanto al Giudice fallimentare, si imporrà un approccio consapevole del tecnicismo tributario, cui sarà necessario avvicinarsi con la consapevolezza che gli istituti del diritto tributario sono tipizzati e che al fine della corretta individuazione del carico scaduto sarà necessario e responsabile che le norme fiscali vengano testualmente interpretate.

Quanto al difensore, di certo all’avvocato specializzato in diritto tributario si offrono nuovi ambiti di valorizzazione della propria specificità professionale, sia nei riguardi dell’impresa, mediante un accorta attività anticipatoria nell’avvio delle tutele tipiche, al fine di preparare l’imprenditore ad affrontare con consapevolezza l’impatto con l’istruttoria fallimentare, ma anche nei riguardi del Giudice, cui potrà offrire il sostegno della propria specialità professionale al fine di approcciarsi con consapevolezza nei riguardi di una materia e di istituti che non gli sono consueti (a meno che non pratichi già la Commissione Tributaria).

Quanto all’imprenditore, affinché comprenda che non è più possibile approcciarsi ai propri obblighi tributari con leggerezza e che l’omissione del versamento delle imposte non è più un canale di autofinanziamento praticabile, oltre ad essere ovviamente un dovere nei riguardi della collettività.

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Il valore fondamentale della giurisdizione specializzata di merito nell’attuazione della legislazione statutaria.

Nell’immaginare una riflessione sulla storia (parlamentare e, ex post, applicativa-giurisprudenziale) dello Statuto dei diritti del contribuente di cui quest’anno celebriamo il ventennale, mi è venuto spontaneo porre a raffronto lo Statuto dei diritti dei contribuenti con lo Statuto dei diritti dei lavoratori, introdotto nel con la legge 300 del 1970 dopo un lungo lavoro sotto la guida del ministri Brodolini (socialista, prematuramente scomparso) e Donat Cattin (democristiano) ma soprattutto sotto la guida di Gino Giugni incaricato di dirigere la commissione per l’elaborazione del testo dello statuto.

Questo palinsesto normativo ha fornito la cornice definitoria ad un rapporto conflittuale tra una parte debole (la parte della manodopera lavorativa) nei riguardi della parte forte (la parte datoriale) in un tempo ormai dimenticato di grossi conflitti sociali, affermando e disciplinando il diritto di organizzazione sindacale e la contrattazione collettiva.

Questa norma, che ancora oggi a distanza di cinquant’anni viene riconosciuta come fondamentale nel quadro normativo nazionale e che, come accade per il nostro statuto dei diritti dei contribuenti, esprime, in una norma ordinaria, principi e regole di stampo costituzionale (Titolo I “Della libertà e della dignità del lavoratore” e Titolo II “Della libertà sindacale”), ha avuto il privilegio di essere seguita, dopo soli tre anni dalla sua entrata in vigore, della nuova legge sul processo del lavoro.

La legge n. 533 del 1973 ha istituito il ruolo del giudice di merito specializzato nella materia e ha introdotto nel processo una serie di principi e di regole processuali che hanno consentito al giudice di operare in modo rapido ed efficace. E i giudici, grazie al nuovo processo del lavoro, si sono sentiti investiti di un ruolo di supplenza e hanno saputo svolgere tale impegnativo ruolo con entusiasmo e carica creativa. Paolo Grossi afferma, tra l’altro, che in coincidenza con l’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori e del nuovo processo del lavoro “una generazione nuova di giudici si sentì investita di una missione garantistica”.

Il compito del nuovo giudice era (ed è attualmente, atteso che la norma è rimasta, in parte qua, immutata) quello di trovare una linea di confine fra comportamenti antisindacali, e come tali illegittimi, e comportamenti datoriali dialetticamente contrapposti al sindacato ma pienamente legittimi in quanto meramente antagonistici e quindi ricompresi nella corretta dialettica fra parti contrapposte. Una linea di confine che può essere trovata soltanto attraverso la corretta applicazione dei princìpi dell’ordinamento, ed in particolare dei principi costituzionali.

In questo, e con tutte le complessità e le degenerazioni che gli esperti lavoristi possono far rilevare dopo il trascorso di mezzo secolo, è innegabile che il giudice del lavoro abbia sussunto nel esercizio della propria giurisdizione il principio costituzionale della terzietà, oltre che della professionalità e della competenza specialistica.

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Cosa è accaduto per effetto dell’introduzione dello Statuto dei diritti del contribuente?

E’ innegabile che la resa delle novità introdotte dallo Statuto (dal nostro Statuto) è stata di diverso rilievo ed incidenza, a seconda che si abbia agio di osservare i diversi attori del rapporto in cui la legge si è inserita ed ha operato, ossia “l’amministrazione, la giurisprudenza, il legislatore, il Garante, i contribuenti”.

L’Amministrazione Finanziaria.

E’ innegabile che lo Statuto abbia accompagnato, tra la fine degli anni 90 ed i primi anni 2000, una rilevante opera di modernizzazione della Amministrazione finanziaria, che va riconosciuta ed apprezzata. In questo periodo nasce il fisco telematico, la dichiarazione unica, le compensazioni, le rateazioni, si realizza un sistema di comunicazione con i contribuenti che rende più trasparente la liquidazione delle dichiarazioni, si potenzia l’attività di informazione con l’utilizzo avanzato di Internet e delle nuove tecnologie; si introduce con circolare l’interpello, si vara l’autotutela, si generalizza il ravvedimento, si porta a regime l’accertamento con adesione, si regola con Direttiva del Ministro lo svolgimento delle verifiche, si riforma e si umanizza la disciplina delle sanzioni, si creano le Agenzie.  

Tutte realtà che oggi appaiono scontate ma che non lo erano affatto, prima della loro introduzione. Sotto questo specifico profilo, è necessario e doveroso riconoscere che il ruolo del contribuente si è instradato in un percorso di maturazione da suddito a cittadino.

Certo, dovremmo in realtà attualizzare tale giudizio e chiederci se la PA dei tempi d’oggi è rimasta all’altezza di questa modernizzazione; così come andrebbe indagato se questa modernizzazione non sia stata più funzionale alle necessità dell’Ufficio che indotta dal rispetto dei principi statutari.

La Giurisdizione tributaria.

Eguale e condivisibile il plauso nei riguardi della Suprema Corte, che tutti anche oggi hanno riconosciuto aver avuto il merito di enucleare ed attribuire valore e rango sovraordinato all’insieme dei principi in esso statuiti. Certo, la fragilità dell’impianto normativo è evidente: il mancato riconoscimento formale del rango costituzionale derivante dalla mancata inclusione nel sistema delle fonti fa della legge 212 una norma tanto evocata quanto derogata e violata nella propria essenza garantista.

Va peraltro rammentata la coincidenza temporale con la nascita della sezione tributaria della Suprema Corte, la cui attività è iniziata il 1° novembre 1999.

E’ altrettanto vero, e con ciò ritorno al parallelismo di partenza, che la resa del Giudice dei tributi, nell’ottica della attuazione statutaria, si presenta non paragonabile a quanto fatto dai buoni vecchi Pretori del Lavoro.

Questo assunto è il frutto di una comune percezione (credo oggi anche condivisa con l’Agenzia) di inadeguatezza (dell’istituto, non già dei soggetti che oggi sono chiamati con dedizione a rivestirne il ruolo). Lo dicono i numeri, oltre che la comune esperienza personale delle parti in causa, e ne soffre soprattutto la Suprema Corte, se è vero come è vero che la pendenza dei giudizi nelle due sezioni specializzate (la Sezione lavoro e la Sezione tributaria) è numericamente sbilanciata a danno della sezione tributaria (dati del 2017, sul 100% dei giudizi, il 37, 05% è stato iscritto in sezione tributaria, addirittura l’17,6% in sezione lavoro, comprensivi del previdenziale).

La Corte è stata chiamata ad uno sforzo di supplenza straordinario che si riflette sul suo quotidiano funzionamento e rischia di comprometterne la funzionalità, come pubblicamente richiamato sin dalla presidenza Carbone.

Ma al di là della dimensione numerica della pendenza, quello che credo vada stigmatizzato, è la circostanza che la onorarietà dell’impiego, e quindi la temporaneità dell’impegno reso dai giudici prestati all’Ufficio delle Commissioni Tributarie, non è più compatibile con l’approccio consapevole e responsabile nella definizione di controversie assai tecniche.

Perché, come ci insegna lo Statuto dei diritti del contribuente, la composizione del conflitto tributario involge sempre il riconoscimento della dignità, prima ancora che della soggettività giuridica del cittadino contribuente nei confronti dello strapotere dello Stato impositore. Alla luce di questo faro, non si giustifica più la sommarizzazione dei giudicati, la svalutazione della motivazione dell’atto, la continua inversione dell’onere della prova.

Il Legislatore.

Ciò anche perché veramente a poco sembra valere l’autoqualificazione, con la quale esordisce l’art. 1, comma 1, (“Le disposizioni della presente legge, in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono princìpi generali dell’ordinamento tributario…”) indubbiamente espressione della volontà di orientare in senso garantistico tutta la prospettiva costituzionale del diritto tributario, quando tali intenzioni sono sistematicamente tradite dallo stesso legislatore che, legge su legge, deroga esplicitamente ai contenuti dello Statuto.  

E qualcuno, a Berlino, prima o poi dovrà riconoscere che il sistematico reiterarsi di interpretazioni autentiche (tutte a beneficio della parte pubblica) è vero e proprio abuso del diritto.

Si è parlato di codificazione. In una intervista al Sole il prof. Gianni Marongiu, padre nobile dello Statuto ha affermato: “Eliminare lo Statuto vorrebbe dire scrivere un Codice tributario, ma è uno sforzo sproporzionato alla forza dell’attuale Parlamento”. Tutti noi ci auguriamo di essere smentiti.

Il Garante.

Anche la figura del Garante sconta un gap di adeguatezza funzionale. Così, difettano all’autorevolezza dell’organo i poteri tipici delle authorities: il potere di assumere decisioni vincolanti, e di comminare sanzioni in caso di inosservanza delle stesse; il potere di disporre ispezioni e controlli penetranti sull’operato delle Amministrazioni finanziarie soggette a verifica; il potere di emettere pareri, assente se non nella limitata prospettiva di attribuire funzione consultiva alle Relazioni che il Garante presenta periodicamente al Ministero delle Finanze. Chi ricorda quei tempi sa che il Garante nacque come ripiego tra chi avrebbe voluto introdurre una Autorità Autonoma e il ministero che si oppose.

L’istituto forse potrebbe manifestare una rinnovata rilevanza ove venisse dato corso all’esperienza tutta siciliana del Tavolo della Compliance. Certo, il ventennio trascorso e la rinnovata fiducia nell’istituto delle autorità amministrative indipendenti, per l’elevata funzione di controllo indipendente che hanno assicurato, lascia pensare che, ove rispettata la adeguata dotazione di strumenti, questa opzione oggi potrebbe trovare quell’ascolto a suo tempo denegato.

Contribuenti e professionisti.

In conclusione, una parola va data ai contribuenti ed anche ai professionisti che li rappresentano. Ovviamente parlo dei contribuenti consapevoli dei propri obblighi di contribuzione nei riguardi dello Stato, non degli evasori.

Ebbene, non è dato sapere quanto la percezione dello statuto sia entrata nella coscienza collettiva. Personalmente dubito che si tratti di una percentuale rilevante. Molti hanno tratto benefici dal miglioramento del rapporto tributario in via del tutto inconsapevole.

Lo Statuto è basato, lo abbiamo visto, su alcune parole d’ordine fondamentali, e una tra queste è la trasparenza. La prima forma di trasparenza riguarda gli effetti economici delle leggi. Sapere quanto incide sulle loro tasche una legge come quella di stabilità è un preciso diritto dei cittadini. Una seconda forma di trasparenza, ancora più rilevante, riguarda l’ammontare complessivo della tassazione gravante sui cittadini. E’ forse abbastanza agevole verificare qual è la pressione fiscale erariale, ma è assai più difficoltoso determinare qual è la pressione, anche molto diversa nel territorio, che grava in modo complessivo sul cittadino.

E’ passata sotto silenzio la pubblicazione dell’International Tax Competitiveness Index realizzato dal Centro studi Epicenter che pone il sistema fiscale italiano all’ultimo posto tra i paesi aderenti all’OCSE per elevatezza delle aliquote marginali, per la compresenza asfissiante di imposte sul patrimonio, sulle transazioni finanziarie e sugli immobili; e per la farraginosità del sistema degli adempimenti correlati all’esecuzione dell’obbligazione tributaria.

Forse è giunto il momento, magari partendo dai dati acquisisti in seno alle dichiarazioni precompilate ovvero all’ISEE, di creare un indice che misuri e dia un valore, non solo statistico, alla pressione fiscale cui il singolo soggetto è sottoposto, affinché, ove questo indice esuberi limiti normativamente prefigurati di elevatezza e sopportabilità, il cittadino possa ottenerne la riduzione per via giudiziale.

Quanto ai professionisti, e mi riferisco agli avvocati, mi sia permesso di ricordare che quest’anno oltre ad essere il ventennale dello Statuto, è anche il ventennale di UNCAT, che prese vita proprio nel dicembre del 2000, nella splendida cornice del Tribunale di Napoli, alla presenza e sotto la cura dell’accademia.

Il contributo fattivo all’odierno evento dell’avvocatura specialistica organizzata ci rassicura sulla convinzione che questo ventennio non sia trascorso invano.

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Filippo Turati, ovvero lezioni di democrazia parlamentare.

“…e voi avete molta fretta. […] Chiedete i pieni poteri […] anche in materia tributaria; il che significa che abolite il Parlamento, anche se lo lasciate sussistere, come uno scenario dipinto, per il vostro comodo”.

Quanta attualità nelle parole di Filippo Turati, rese nel famoso discorso contro Mussolini che si appropriava del Parlamento.

La presentazione del suo ultimo lavoro “Le 99 piaghe del fisco” è stata per noi di Uncat una splendida occasione per riflettere sulle degenerazioni di sistema in cui il fisco si avvita, nell’Italia che, immemore del passato, ripudia il parlamentarismo e delega i poteri di legislazione fiscale all’amministrazione finanziaria ed al governo dell’emergenza.

Un sentito ringraziamento al prof. Francesco Tundo per aver perpetuato la memoria di tempi bui, affinché un barlume di speranza possa illuminare la nostra oscura quotidianità.

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La legislazione fiscale, in perenne emergenza, necessita di riforme illuminate da principi generali codificati.

La materia fiscale è un argomento da maneggiare con cura.

Una riflessione di Antonio Damascelli presidente UNCAT – Unione Nazionale Camere Avvocati Tributaristi oggi su Il Sole 24 Ore che, rileggendo Luigi Einaudi, ci rimanda alla immutata urgenza di riforme illuminate da principi generali codificati.

#riformafiscale #mef #agenziaentrate #giustiziatributaria #avvocatitributaristi #uncat #ilsole24ore

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Jazz law, ovvero l’abisso della giurisprudenza tributaria creativa.

Cosa è l’improvvisazione?

Secondo Derek Bailey, compianto chitarrista inglese, autore di un testo fondamentale di cultura jazzistica intitolato “Improvvisazione. Sua natura e pratica in musica”, essa è “la celebrazione dell’attimo“.

Per Steve Lacy, sassofonista, è invece “stare sempre sul confine dell’ignoto pronti al salto“.

Al confine del buio, sul limitare del baratro, in equilibrio sul filo, è come ci si sente a leggere CTP/Catania n. 4462/8/2020. E’ uno straniante senso di mancamento, di vertigine; una esperienza mistica, insomma.

La fattispecie. Si tratta di un ricorso avverso tasse automobilistiche per un importo di euro 457,25. Stante il valore, è con tutta evidenza un ricorso con valore di reclamo ai sensi e per gli effetti dell’art.17 bis. Il ricorrente, assumendo la illegittimità della notificazione, notifica il ricorso a mezzo pec in data 30.1.2018 e lo deposita in data 30.5.2018, in piena tempestività.

Rileva incredibilmente il Giudicante, dopo aver testualmente citato l’art. 22 comma 1 del d.lsg. 546/90, che il ricorso deve considerarsi inammissibile per violazione della norma citata, in quanto depositato “ben oltre il prescritto termine di trenta giorni dalla sua notificazione”. Un lampo. Un bagliore di luce tra le tenebre notturne.

E, a comprova che il dictum sia frutto di meditata ermeneutica, così prosegue “Nè può venire in soccorso del ricorrente il termine per il deposito del ricorso previsto dall’art.17 bis, comma 3 d.lgs. n.546/1992 (dallo stesso invocato nella memoria illustrativa), atteso che agli atti non risulta presentato, ai sensi del citato articolo, alcun reclamo; nè, d’altro canto, può ritenersi che, dopo la novella di cui all’art.9, comma 1, lett.l) d.lgs. n.156/2015, “il ricorso produce anche gli effetti di un reclamo” anche in assenza di una espressa volontà manifestata in tal senso dal ricorrente (NDR: ed invece è proprio così!!!), chè una tale interpretazione determinerebbe un’abrogazione tacita dell’art.22 comma 1 d.lgs n.546/1992 (NDR: perchè mai, di grazia???), pur in assenza di una univoca volontà in tal senso del legislatore, che anzi ha aggiunto il nuovo istituto del reclamo lasciando inalterato l’ordinario regime ex art. 22 comma 1, cit. .”

Come è universalmente noto, il ricorso, per le controversie sotto soglia, ha anche valore di reclamo. La procedura amministrativa obbligatoria volta alla composizione della lite, che si instaura per prescrizione normativa senza necessità di ulteriore richiesta apposita, costituisce condizione di procedibilità del ricorso, che diviene esperibile decorsi novanta giorni fissati per la conclusione della stessa. Da tale termine riprendono a decorrere i trenta giorni per la costituzione in giudizio davanti alla Commissione Tributaria.

Orbene, ogni linguaggio sottintende un errore, ed anche il linguaggio giuridico sottintende quindi anche di essere inteso in modo errato. Tuttavia il caso che ci occupa (invero senza alcuna sufficiente necessità…), manifesta la volontà dell’interprete di esuberare il proprio ruolo, ed abbracciare la “missione” espressiva, secondo visione autonoma, originale e creativa. Ed infatti, proprio in ragione della “novità della questione”, il ricorrente è stato graziato dalla rifusione degli oneri di giudizio.

Ma qui non ci imbattiamo in un caso di interpretazione creativa, intesa come quella che fornisce una delle interpretazioni possibili di ciò che non è precisamente determinato nella norma.

Il ricorso con valore di reclamo funziona proprio così. Lo stabilisce la legge. Si studia all’Università. Per questa alfabetizzazione, sarebbe sufficiente la cura della lettura dei manuali di diritto processuale tributario.

Perchè, ci insegna Bailey, “la capacità di improvvisare dipende in primo luogo dalla conoscenza”. Ecco.


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Uncat: gli avvocati tributaristi sollecitano la ripresa delle udienze “in presenza”.

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L’obbligazione tributaria: un tabù incompiuto.

La semiotica giuridica è quella scienza che studia il linguistico della norma, ossia analizza e riconosce quando un linguaggio (segno o representamen) assume valenza normativa. Il segno linguistico che coglie al meglio il tratto normativo è il verbo “dovere”, che caratterizza gli enunciati normativi che esprimono l’obbligo, la proibizione o il permesso di compiere determinate azioni.

Indiscutibilmente anche il diritto tributario si conforma diffusamente alla normatività deontica del linguaggio, in tal guisa esprimendo la prescrittività dell’obbligazione tributaria. Tuttavia, mi pare altrettanto interessante notare come in ambito tributario la relazione tra significante e significato sia, spesso, un processo che rinvia a qualcos’altro: aliquid stat pro aliquo (parafrasando Sant’Agostino).

In questo, istituti non marginali del diritto tributario, mi riferisco a quelle ipotesi di assolvimento non tempestivo dell’obbligazione tributaria ed alla disciplina che ne gestisce le modalità di recupero degli effetti (come il ravvedimento operoso oppure il cd. condono), sembrano rinviare ad un metatesto di matrice ascetico penitenziale.

Essi esprimono, nella loro semantica, tutta la carica di emotività liturgica che il legislatore si augura promani dal contribuente penitente nella sua pratica di espiazione, in forza del ritardato assolvimento di un obbligo necessitato, cui la norma correla una sanzione affievolita, ma assunta spontaneamente in assenza di constatazione. 

Insomma paghi in ritardo e ti cospargi il capo di cenere.

È innegabile, senza scomodare Hegel, che il senso di questa operazione di eticizzazione teologica di una obbligazione pecuniaria (speciale per quanto sia, questo è il contenuto della obbligazione tributaria), debba essere ricercato nella volontà di creare il tabù del mancato pagamento dei tributi. 

L’intento, non troppo dissimulato, consiste nell’alimentare una forte componente motivazionale inconscia che porti a considerare ineluttabilmente deprecabile il mancato assolvimento della obbligazione tributaria.

Orbene, lungi da me voler contestare il merito dell’obbligo di corrispondere le imposte, che è costituzionalmente statuito, pur rivendicando, per dovere professionale, il compito di difendere il cittadino contribuente in tutti i (frequenti) casi nei quali l’atto impositivo esuberi nelle forme e nei modi la capacità contributiva di ogni singolo cittadino.

Più interessante, invece, soffermarsi sulla efficacia di tale operazione semantica, o meglio socio semiologica. Perché, a dire il vero, malgrado questa torsione eticizzante, l’evasione fiscale pare non arrestarsi, così come inarrestabile ci appare il dilagare della spesa (effetto Covid a parte).

Forse, quindi, più che immaginare i contribuenti come primitivi devoti osservanti, sarebbe assai più civile riconsiderarli cittadini e, ripristinando il naturale equilibrio tra obbligatorietà del prelievo e continenza della spesa, de-eticizzare il precetto, stimolando la maturazione di una coscienza collettiva, e recuperare ex adverso il valore costituzionale della razionalizzazione dei costi di gestione della cosa pubblica, che è pur sempre causa e fondamento di un prelievo ormai insostenibile.

Photo by Aarón Blanco Tejedor on Unsplash

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Save the date: Uncat Sicilia zoom 28.9.2020

Uncat Sicilia ha programmato per il prossimo 28 settembre 2020 un incontro zoom per la presentazione del nuovo libro del prof. Francesco Tundo “Le 99 piaghe del fisco: una demorazia decapitata”.

Una nuova occasione per analizzare le deficienze strutturali del sistema fiscale e le sue cause storiche.

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AE ed i principi di diritto: l’apparenza del diritto vivente e frà Guglielmo da Baskerville.

Nell’ordinamento italiano il principio di diritto è l’interpretazione resa dalla Corte di Cassazione su una o più norme, sostanziali o processuali, all’esito di un ricorso per Cassazione proposto da una delle parti di un giudizio di merito, ovvero del ricorso nell’interesse della legge proposto dal Procuratore Generale.

Il principio di diritto, quindi, costituisce l’essenza della funzione di nomofilachia esercitata dalla Suprema Corte, intesa come massima espressione del potere di interpretazione delle norme, resa nell’interesse della legge.

Il consuetudinario reiterarsi di una interpretazione giurisprudenziale realizza quello che è solito qualificarsi come diritto vivente, ossia la communis opinio maturata nella giurisprudenza in ordine al significato normativo da attribuire ad una determinata disposizione.

Da un paio d’anni, sul sito dell’AE, nella sezione dedicata alla pubblica diffusione delle risposte rese dall’amministrazione finanziaria in ossequio agli obblighi ad essa imposti dall’art.11 dello statuto del contribuente, è possibile imbattersi in una pagina intitolata appunto “principi di diritto”.

La pagina si associa ad altre pagine che raccolgono, sub specie di circolari o risoluzioni, gli esiti ad istanze di interpello o consulenza giuridica, che i cittadini contribuenti rivolgono all’AE.

Essa, come espressamente chiarisce il provvedimento direttoriale che l’ha istituita, raccoglie quanto reso dalle strutture centrali, garantendo la pubblicità dei soli “principi di diritto espressi nella risposta” omettendo qualsiasi riferimento anche alla fattispecie oggetto del quesito, quando la pubblicazione possa recare pregiudizio concreto ad un interesse pubblico o privato. Ciò, a tutela del mercato, della concorrenza, del diritto alla protezione dei dati personali, della proprietà intellettuale, del diritto d’autore e del segreto commerciale.

Trattasi di una attività che lo Statuto impone all’amministrazione, affinché il proprio operato non rimanga oscuro, così come chiarisce il provvedimento direttoriale del 7 agosto 2018 prot. 185630/2018, nel quale si precisa che tale potestà “si informa al principio di trasparenza dell’azione amministrativa ed è effettuata al fine di favorirne l’efficacia, l’imparzialità e la pubblicità, consentendo al contribuente la più ampia conoscenza di tutte le soluzioni interpretative adottate dell’Agenzia nell’ambito dell’istituto dell’interpello”.

Che ci azzecca, quindi il “principio di diritto”?

Qualificare in tal guisa le proprie, personalissime, interpretazioni di norme di nuova emanazione ovvero di controversa applicazione costituisce una fine attività di dissimulazione, finalizzata ad attribuire il sigillo della terzietà, per il tramite di un camouflage nominalistico, a soluzioni interpretative rese dalla parte pubblica che esercita il compito istituzionale di accertamento e riscossione dei tributi e che, per tale scopo istituzionale, di certo non si fa apprezzare per interpretazioni benevole a beneficio dei cittadini contribuenti.

Ed allora?  Stat rosa pristina nomine. Frate Guglielmo da Baskerville lo scoprì, dopo lunghe e perigliose indagini. 

Il principio di diritto, in quanto tale, non emana mai da una delle parti. La qualifica quindi non attribuisce valore “originario” al contenuto di una semplice soluzione interpretativa non trasfusa in un provvedimento giurisdizionale. 

Nessuna interpretazione assurge a principio di diritto, se non dopo un (lungo ed incerto) giudizio che lo abbia statuito. 

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La fiscalità dell’impresa nella legislazione Covid

Il 30 giugno 2020 importante evento formativo zoom sotto le insegne di Formazione Uncat. Giulio Andreani, Andrea Carinci, Fabio Ciani, Giuseppe Zizzo ed Angelo Cuva hanno scandagliato la fiscalità d’impresa in tempo di Covid.

Di seguito la playlist degli interventi su Youtube.